MARCO PANTANI, L’INDIMENTICABILE PIRATA

MARCO PANTANI, L’INDIMENTICABILE PIRATA

San Valentino, giornata di festa. Giornata che non merita di essere turbata da pensieri funesti, motivo per cui parlo di certe cose solo il giorno dopo. San Valentino di 9 anni fa: in una pensione di Rimini, solo e nel più assoluto anonimato muore Marco Pantani, il “Pirata”. Il Pirata: una icona per noi romagnoli, una icona per i quarantenni che si stavano appassionando un po’ al ciclismo. Una persona che riusciva a far amare il Giro d’ Italia anche ai non appassionati come il sottoscritto, perché quando arrivano le tappe in montagna, il Pirata ne faceva vedere sempre delle belle. Marco Pantani nasce a Cesena, nel cuore della Romagna, il 13 gennaio 1970. A Cesenatico, dove viveva, il calcio non è uno sport di grosso successo: infatti, tutte le grandi squadre di calcio di serie A e B della regione sono quasi tutte emiliane, con unica eccezione del Rimini, che veleggia nelle serie minori del calcio, con qualche sporadica puntata in Serie B. E fu così che Marco Pantani decise di darsi al ciclismo; professionista a 22 anni, un ciclista molto particolare per essere il figlio di una terra di mare, divenendo uno specializzato scalatore, uno specialista delle tappe in montagna. Il ciclismo moderno è uno sport complesso, che non ho mai capito; uno sport in cui Giro d’ Italia, Tour de France o Vuelta in Spagna non venivano quasi mai vinti (negli ultimi tempi ancora più frequentemente) dal migliore, da quello che vinceva di più, ma da quello che, in base a conteggi, punteggi scomputi, bonus, gare a cronometro, gioco di squadra e gran premi della montagna, totalizzava più punti. Grandi gare vinte da perfetti anonimi, da persone che, guardando il tabellone, forse non avevano vinto neanche una tappa, essendo divenuti primi in classifica solo per giochi di squadra e speculazioni matematiche sul regolamento di gara. Ma una volta no: per i molto anziani, erano gli anni dei Saronni, dei Moser, degli Hinault, mentre per i quarantenni erano gli anni degli Hindurain e del Pirata, appunto. Quando ancora un ciclista iniziava a vincere tappe e a staccare, con la potenza di un Dio greco, tutti gli altri concorrenti costretti ad inseguirlo e a lasciarlo andare, spossati e impotenti. Le grandi gare a tappe dovevano essere preparate con cura, dato l’ altissimo dispendio fisico: gare in cui, in pianura e a cronometro vinceva uno, vinceva l’ altro, vinceva chi vinceva. Ma, come diceva un altro grande spentosi giovane, il grande John Belushi, “è quando il gioco si fa duro che i duri iniziano a giocare”: si arriva alle tappe in montagna e, con la piogga e delle volte anche in mezzo a nevicate, un ciclista con la bandana in testa si alzava in piedi sui pedali iniziando a massacrare tutti gli altri concorrenti che erano costretti a farsi da parte in mezzo ad una folla in trance, esaltata come ad una finale dei mondiali di calcio. Alpe d’ Houez, Mortirolo e tante altre tappe alpine: io non guardavo il giro d’ Italia, che reputavo un po’ noioso (tappe anche di 5 o 6 ore in pianura), ma quando arrivava la montagna, tutti a vedere che cosa combinava “il Pirata”, perché quando correva lui non ce n’ era per nessuno. Non solo uno specialista di tappe in montagna, ma un autentico killer che, massacrata fisicamente e psicologicamente la concorrenza, poi andava a vincere senza poter essere più ripreso. E infatti il 1998 è l’ anno d’ oro di un Marco Pantani all’ apice della maturità: arrogante e prepotente come solo i veri campioni sanno essere, vince sia il Giro d’ Italia che il Tour de France,  guadagnandosi un posto nella storia. Ancora oggi, dopo 15 anni, resta l’ ultimo italiano ad avere vinto il Tour de France e uno dei pochissimi nella storia del ciclismo, gente come Fausto Coppi, Jacques Anquetil, Eddy Merckx, Bernard Hinault, Stephen Roche e Miguel Indurain ad aver vinto lo stesso anno sia il Giro d’ Italia che il Tour de France. Ma il ciclismo è uno sport duro, uno sport spietato, con le regole di uno sport povero: mentre in altre attività sportive quali il calcio, la pallacanestro e la pallavolo vi è la possibilità, anche per chi pratica a livelli semiamatoriali o ai livelli professionistici più bassi di guadagnare qualcosa (quando ero ragazzino, un mio amico che giocava a pallacanestro in una squadra delle serie inferiori in Emilia guadagnava quanto e più del mio stipendio), nel ciclismo non vi è una via di mezzo: o si diventa professionista (anche come gregario) in una squadra, oppure si resta poveri, si rimane degli sportivi amatoriali della domenica. E, soprattutto negli amatori che vogliono farsi notare agli scout delle squadre professionistiche, l’ ansia da prestazione, del fare il “colpo” che può metterti a posto per la vita è forte: e bisogna riuscirci in tutte le maniere, quelle lecite e quelle meno. Famosissima, in “Fantozzi contro tutti” la “bomba del ciclista”, il beverone venduto alla gara aziendale di ciclismo, in grado di trasformare il ragionier Ugo Fantozzi in un missile in bicicletta. Ci si fa notare, ci si fa vedere e si riesce a strappare un ingaggio da professionista, magari come gregario, come seconda scelta, ma pur sempre si inizia a guadagnare qualcosa da ciò che fino al quel momento è stato solo un hobby spesso costoso e sempre impegnativo. Il ciclismo comincia a perdere di notorietà: per via dei regolamenti le grandi gare vengono vinte da dei signor nessuno, da degli sconosciuti, solo perché si è stati bravi a fare gioco di squadra e a pianificare risultati e piazzamenti, senza più gli Eddy Merckx, i Moser, i Saronni che infiammavano gli animi alla gente. E comincia a farsi largo il dubbio che il doping non sia solo circoscritto ai bassi livelli, al ciclismo amatoriale, ma che sia diffuso sistematicamente anche ai livelli professionistici. Famosi i casi dello statunitense Lance Armstrong, marziano che scendeva sul pianeta terra solo per correre il Tour de France, gara che vinse per sette volte consecutive, tutte revocate a seguito delle indagini che lo videro positivo al doping, soprattutto all’ utilizzo dell’ EPO. E i Tour de France degli anni successivi, dove erano sistematiche le perquisizioni della polizia, gli arresti e le squalifiche sistematiche per uso di sostanze illecite, in cui il vincitore era quasi sempre colui che era sopravvissuto all’ arresto e ai controlli antidoping, anche se non per forza il miglior ciclista. E un piccolo nome (non all’ altezza dei grandi del passato, ma pur sempre uno dei nomi più grossi che giravano in quel periodo) come Jan Ullrich, ciclista tedesco, che inizia a vincere gare prima di venire fermato e squalificato per doping, pure lui. E quindi il ciclismo, in crisi di credibilità e in caduta libera di popolarità (che nel professionismo significa perdere diritti televisivi, sponsor pubblicitari e tutto quel poco che garantisce introito economico) deve dare un segnale di pulizia, di voglia di regolarità. E come diceva Mao-Tse Tung, bisognava prendere uno, portarlo in piazza e bastonarlo di fronte alla folla per educare dieci, cento, mille altre persone. Vittima sacrificale un giovane emergente, non uno dei vecchi grandi nomi di cui si conosceva la colpevolezza: un giovane che non avesse mammasantissima ne santi patroni nelle stanze dei bottoni, nelle stanze del comando dove il ciclismo era solo politica ed interesse. Fresco di un grande successo, dicevo: vincere lo stesso anno Tour de France e Giro d’ Italia, come solo i grandissimi del ciclismo seppero fare. Giunge il 5 giugno 1999, quando a Madonna di Campiglio la Direzione del Giro d’ Italia comunica alla stampa, con fare molto teatrale che il ciclista Marco Pantani, a quel momento leader della gara, veniva sospeso “in via cautelare” a seguito di valori alti di globuli rossi nel sangue. Una sospensione cautelare, dicono, a tutela della salute del ciclista; una sospensione della durata di 15 giorni, che di fatto lo estromette dalla gara. Scalpore: la sua squadra, la Mercatone Uno – Bianchi si ritira in blocco dalla gara e Paolo Savoldelli, il secondo in classifica, si rifiuta di indossare la maglia rosa, a suo dire illegittimamente e ingiustamente tolta al Pirata. Va detto che, mentre con altri ciclisti la positività al doping venne documentata dalle analisi, alcune rese note immediatamente, altre divulgate postume (come nel caso di Lance Armstrong, dove tutti i riscontri all’ uso di sostanze illecite vennero strumentalmente resi noti solo dopo il suo ritiro), nel caso di Marco Pantani tale valore di globuli rossi alto (un valore preoccupante, non una vera e propria presenza di sostanze illecite nel sangue) è l’ unica macchia risultante ma sbandierata senza risparmio, in maniera fragorosa e clamorosa. Marco non ce la fa: per un ragazzo normale, timido ed introverso che a soli 28 anni diventa lo sportivo più amato dagli italiani, il “Pirata”, quello che quando corre in montagna esalta le migliaia di spettatori giunti a vedere solo lui, essere privato dei successi, della possibilità di essere un eroe dello sport è una punizione a cui non riesce a reagire. Squalificato dal Giro d’ Italia nel 1999, ritenta la partecipazione l’ anno successivo dove, complice una inadeguata preparazione fisica e una condizione psicologica segnata dalla squalifica dell’ anno precedente, non riesce a ripetersi chiudendo un Giro d’ Italia senza acuti. Giunge la depressione, perché Marco non riesce a farsi una ragione dell’ accaduto. Si spengono le luci, e colui che fino a qualche tempo prima era un “must”, lo sportivo di cui parlare e con cui farsi fotografare ora diviene un appestato, un imbarazzo da dover evitare. E Marco si ritrova solo: solo e psicologicamente debole, avvicinato e circondato da disonesti e sfruttatori interessati soltanto a poter mettere le mani sul suo denaro e ad approfittare di lui. Il giorno di San Valentino dell’ anno 2004, Marco Pantani viene trovato morto: solo, in una modesta pensioncina di Rimini stroncato da un arresto cardiaco causato da un’ overdose di cocaina. Per altro, cosa molto triste, nell’ analisi del midollo osseo vennero riscontrate concentrazioni di EPO molto basse, ovvero Marco aveva fatto solo un uso molto ridotto di sostanze illecite e stimolanti, in quantità inferiori e con molto meno sistematicità degli altri ciclisti di allora, che continuarono tranquillamente a correre e che furono accertati e squalificati solo tempo dopo, spesso a seguito di indagini amministrative della polizia per lo smercio di sostanze illegali piuttosto che fermati da una giustizia sportiva, nel ciclismo, molto addomesticata agli interessi politici e alle direttive dei poteri forti.