IN VIAGGIO VERSO DASHT-E-KHEVIR, SOTTO IL SOLE COCENTE DEL DESERTO

Camaleonte. Il deserto ti mangia, ti inghiotte. Ora di terra, poi tutto sassi, poi di picchi, di rocce, nero, aspro, come lava appena freddata, poi disteso, disabbia, col vento che tira, i cartelli che ti mettono d’avviso: cammelli, i mulinelli di polvere e di calore, miraggi, poi tutto piatto, bianco, salato, e di sabbie mobili distese fino all’orizzonte, infine di asprezze montane, nude, improvvise, orride, che inghiottono la strada che ti porta all’inferno. Sole, sole, sole, un immenso forno per oltre 1000 chilometri, questo è il Dasht-e-Khevir, l’immenso deserto centrale iraniano che io sto attraversando da Nain a Torbat-e Heydaryeh, in pieno Khorasan. Poi sarà Mashad, la zona turkmena, il nord dei caravanserragli sulla via della Cina.Sono i deserti e le montagne che disegnano la storia dell’uomo. Io ho abbandonato la strada per l’India ieri mattina, lasciando Esfahan. Non è stato semplicissimo. Anche qui mi sono regolato col sole. Dovevo raggiungere Nain, a est, dunque di mattina avrei dovuto avere il sole di faccia. Ma Esfahan è grande e allora uno imbocca una via e tira dritto, tira dritto, ovunque vada purché si allontani dal dedalo delle viuzze cittadine, poi una volta fuori il gioco diventa più chiaro. Ci ho messo un’ora prima di essere certo di trovarmi sulla strada di Yazd, la bella città del deserto fatta di fango e di paglia, che però io non avrei toccato. Mi aspettava il Dasht-e-Kevir, che ancora non so che vuol dire, ma sarà qualcosa come terra di fuoco, o dell’inferno, ora che ci sto dentro e che l’ho conosciuto.Prima di questa avventura mi ero fermato in pianura, laggiù, più o meno verso Sistan, a controllare la moto. Ho scoperto perché il carburatore destro tossiva: era sporco, la polvere era entrata dalla fascetta del collettore che avevo trovato svitata a Hamadan e aveva intasato il getto del massimo. Mentre armeggiavo con chiavi e cacciavite si è avvicinato discreto Alì, un giovane del posto, e mi ha offerto una Cocacola. Un tempo avevano quelle imitate, ora quelle originali. Poi è passato in auto un signore e mi ha regalato dei guanti per lavorare senza sporcarmi le mani.Già fino a Nain la terra era cambiata in crete grigie e farinose, ed era cambiata l’aria, il calore. Poi quando ho imboccato la strada che taglia da ovest a est…Non avevo mai fatto una traversata del deserto in solitaria in sella alla mia motocicletta. L’ultimo deserto per me era stato quello, bellissimo, del Sudan del nord, in un viaggio organizzato da Giulio Badini. Ma eravamo in Toyota. Il Dasht-e-kevir, per molti versi è più cattivo, se posso…ha una diversa psicologia. Mentre il Sahara era sabbia, inganno, fascino pericoloso, miraggi, qui invece è sfida diretta, cattiva. La terra ti avverte: sarò dura, come è dura poi davvero, andando in là, bordeggiando l’Afghanistan, anticipandone tutte le asprezze.Ora sono a Tabas, in un hotel- si fa per dire – dove ieri sera ho ucciso uno scarafaggio grosso come un dattero. Ma mi serviva un posto, una doccia, un riposo. La Poderosa è stata una moto immensa per bontà e per pazienza. Piccola piccola in un mondo di camion, ogni volta a prendere in faccia lo schiaffo di aria bollente spostato dalle loro motrici. Il caldo è stato asfissiante, cinquanta gradi. Ho tenuto la visiera del casco chiusa per non averne la faccia bruciata. Qui non ho internet, ma ce l’ha una locanda dove ieri sera ho mangiato pollo e riso. Se posso mando queste righe da lì stamane, quando torno per fare colazione e partire di nuovo. Sono a Tabas, entro nel Khorasan o ci sono già entrato, la zona afghana. Oggi sarà ancora deserto almeno fino a Torbat-e Heydarye. Poi Mashad. Sto bene. Ieri nel casco cantavo: “Quando il vento dell’est…”, poi non sapevo più se era del nord o del sud. E pensavo a una ragazza bionda che allora, in Maremma, mi faceva ammattire. “…mi porterà, il profumo dei…” e pensavo anche ai miei. Pensavo a mio padre, che mi ha insegnato la curiosità e le parole, e a mia madre che mi ha dato i suoi sentimenti. Pensavo alla libertà che ho avuto, sempre, con simpatia, da ragazzo e anche ora che ragazzo non sono. “…capelli suoi…”. E pensavo ai miei figli che da lontano mi seguono e che, lo so, non vedono l’ora che io sia tornato. Ma c’è ancora strada da fare… Salam aleikum ragazzi. A presto.