IL GIOVANE CRITICO DEL PCI VUOTA IL SACCO

IL GIOVANE CRITICO DEL PCI VUOTA IL SACCO

Sono sicuro che molti di voi hanno letto, domenica, il bell’articolo che Paolo Di Paolo ha dedicato su “Repubblica” ai trent’anni di “Palombella rossa”, il film di Nanni Moretti.E scommetto che alcuni di voi si saranno chiesti chi era “il giovane critico del PCI” del quale si parla in una frase di Moretti riportata da Di Paolo. Quello che nel lontano e ben poco magico ’89 scrisse che il PCI di cui si parla in “Palombella rossa” è più quello di Natta che quello di Occhetto, quindi un PCI già vecchio e superato. Un critico che, sempre parola di Nanni, non era “uno dei vecchi tromboni”.Meno male. Perché quel “giovane critico” ero, sono, io. E ho deciso di fare coming out perché si tratta, in fondo, di una storia divertente. Forse un po’ lunga, cosa di cui mi scuserete.Nanni l’ha già tirata fuori un anno fa, durante il festival “Le vie del cinema” di Narni, dove proprio quel “giovane critico” – cioè io, che di quel festival sono direttore artistico – l’aveva invitato a presentare proprio “Palombella rossa”. A un certo punto, mentre prima del film lo intervistavo di fronte a qualche centinaio di persone, Nanni ha tirato fuori un foglietto e ha letto alcune frasi di quel pezzo. Ovviamente le ho riconosciute e ho capito subito dove andava a parare. Ma da quel grande attore che è (sì, perché E’ UN GRANDE ATTORE) ha fatto una cosa molto teatrale. Senza dire il mio nome, ha proseguito: “E pensare che questo critico che allora ha scritto queste cose è diventato un critico che io conosco bene, e che stimo. Un critico che mi è molto vicino. Mi è talmente vicino che potrei toccarlo. Anzi, LO STO TOCCANDO”… e a quel punto mi ha afferrato per un braccio. Siamo scoppiati tutti a ridere: io, lui, il pubblico. E poi ho improvvisato lì per lì – spero non troppo goffamente – un rapidissimo flash-back in cui spiegavo perché, nel 1989, avessi scritto quelle cose. Che pensavo, e che ovviamente non penso più.Ma l’aspetto più singolare di questa storia è un altro.Nel 1989 io lavoravo a “l’Unità” ed ero a Venezia per il giornale, quando “Palombella rossa” venne proiettato. Ma quelle parole su Natta e Occhetto non le scrissi sull’Unità, perché non fui io a recensire il film. La recensione venne scritta dall’allora critico titolare, Sauro Borelli, e io scrissi il resoconto dell’affollatissima conferenza stampa di Moretti. Un pezzo che ho ritrovato e che sinceramente, a distanza di trent’anni, non mi convince per niente: era un pezzo imbarazzato e sulla difensiva, perché in conferenza stampa Nanni aveva detto parole abbastanza critiche sulla dirigenza del PCI di allora, in particolare su Walter Veltroni. Parole con le quali – sono sincero, se no che coming out sarebbe? – non ero completamente d’accordo, ma dovevo fare il cronista, e diciamo che lo feci al 90, forse all’85%. La critica di Borelli era piuttosto negativa. Non credo che a Nanni quel numero dell’Unità (10 settembre 1989) sia particolarmente piaciuto.Ma il pezzo che tre decenni dopo Nanni mi ha riproposto, un po’ come i pezzi del “manifesto” letti al disperato Mazzacurati in “Caro diario”, non era quello dell’Unità. Era un pezzo scritto per la rivista “Cineforum”, numero 288. Se l’è conservato! Capite com’è, quest’uomo? Non dimentica nulla! Tutto ciò che dite potrà essere usato contro di voi!!!Sto scherzando. Che ci crediate o meno voglio molto bene a Nanni, e lui lo sa. Ma per capire perché scrissi quelle cose bisognerebbe ritornare a quel settembre del 1989, a quella Venezia. Da un lato il mondo stava cambiando vorticosamente. Il Muro sarebbe caduto esattamente due mesi dopo, il 9 novembre. Il giorno stesso in cui l’Unità pubblicò la recensione di “Palombella rossa”, il 10 settembre, l’Ungheria aprì i confini creando il primo “buco” nella cortina di ferro, dal quale tracimarono migliaia di cittadini tedeschi in fuga dalla RDT. Dall’altro Venezia era una sorta di psicodramma. Guglielmo Biraghi, direttore, aveva rifiutato “Palombella rossa” per il concorso preferendogli “Che ora è” di Scola (bello, non il più bello del grande Ettore), “Scugnizzi” di Nanni Loy (insomma…) e “In una notte di chiaro di luna” della Wertmuller (terribile). La Settimana della critica, con grande astuzia, aveva invitato “Palombella rossa” come evento speciale. Dal punto di vista mediatico (parola per la quale allora Nanni mi avrebbe dato una sberla, oggi chissà) il film si mangiò tutto il resto della Mostra perché, inutile girarci attorno, era il film giusto al momento giusto, parlava di ciò che ci circondava, ci metteva di fronte a verità fastidiose.Chi, come me, era DENTRO il PCI e viveva quel momento storico come uno strappo individuale e sentimentale, oltre che come un travaglio politico, non riuscì a vivere “Palombella rossa” nel modo giusto. Io, almeno, non ci riuscii. Commisi un errore di prospettiva clamoroso, che a un critico può capitare (basta che poi se ne accorga…): lo lessi come un film del tutto “interno” al dibattito nel quale ero/eravamo immerso/immersi, e pensai che fosse un film incomprensibile ai più. Non solo la storia mi ha smentito: io stesso ho smentito me stesso! Ho rivisto “Palombella rossa” diverse volte e ogni volta l’ho trovato più bello, proprio per la libertà artistica e narrativa che allora ad alcuni era sembrata fragilità. Due o tre anni fa l’ho mostrato, con il mio amico prof Andrea Ventura, agli studenti del Liceo romano Aristofane: beh, non hanno capito nulla del contesto politico di allora (abbiamo dovuto spiegargli non cos’era il PCI, ma COS’ERA UN PARTITO!) ma sono impazziti per tutto il resto, ovvero PER IL FILM, che è pieno di trovate geniali ed è costruito su una struttura invisibile ma fortissima: la libertà associativa che si impadronisce di noi nei sogni, e che ci lascia stupefatti – quando ci svegliamo – per la bellezza e la singolarità di ciò che abbiamo sognato.Il commento a questo punto più banale potrebbe essere: il PCI non c’è più, l’Unità non c’è più, “Palombella rossa” c’è ancora. Dati di fatto per me dolorosi, e dei quali nemmeno Moretti credo sia felice. La verità è che certi film sembrano parlare dell’attualità che ci circonda ma in realtà scavano nella psiche in modo assai più profondo, creando archetipi che non passano “di moda”. Rivisto oggi “Palombella rossa” rimane un film sulla politica e sulle responsabilità che la politica porta con sé, ma mi sembra soprattutto un film sul difficile mestiere di crescere, sulle “merendine di quand’ero bambino che non torneranno più! I pomeriggi di Maggio! Mamma! Mia madre non tornerà più! Il brodo di pollo quand’ero malato, gli ultimi giorni di scuola prima delle vacanze…”. Ma allora non potevamo capirlo. Stavamo crescendo, e mentre cresci non sai che stai crescendo. Come siamo cresciuti, poi, è una domanda a cui ognuno di noi deve rispondere dentro di sé, in silenzio.