ILARIA ALPI, MIRAN HROVATIN, MAURO ROSTAGNO. TRE OMICIDI PER LO STESSO TRAFFICO D’ARMI?

Hanno perso 23 anni tra omissioni, depistaggi e trascuratezza. Perché parte da molto lontano il collegamento investigativo tra l’omicidio di Mauro Rostagno e quello di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Il gip di Roma Andrea Fanelli nei giorni scorsi ha coraggiosamente rigettato la richiesta di archiviazione sull’omicidio della giornalista Rai e del suo operatore avvenuto a Mogadiscio in Somalia il 20 marzo del 1994. Ma non l’ha fatto soltanto per conservare la speranza nella giustizia della famiglia Alpi, che si era opposta all’archiviazione. Fanelli parla nella sua motivazione di “Lati oscuri e financo errori giudiziari”. il gip ha disposto anche di acquisire gli atti relativi al processo e all’indagine per la morte di un altro giornalista scomodo, Mauro Rostagno, attivo contro la mafia e assassinato il 26 settembre 1988 a Lenzi di Valderice in provincia di Trapani. A collegare i tre omicidi sarebbe un traffico d’armi dall’Italia verso la Somalia, del quale Rostagno prima, da Trapani, e la Alpi poi, da Mogadiscio, avrebbero raccolto le prove e per questo sarebbero stati uccisi. C’è una chiave umana in queste due storie, un teste che racconta per primo, e unico, i fatti ora all’esame degli investigatori che indagano sul delitto Alpi Hrovatin, ma lo fa al processo per la morte di Rostagno e la sua deposizione risale a 23 anni prima. Neanche la fiction si spingerebbe a immaginare una realtà così ricca di colpi di scena e drammi. L’8 ottobre 1996 Sergio Di Cori Modigliani, presentandosi spontaneamente ai giudici, racconta dell’esistenza di una videocassetta registrata da Rostagno, in cui si documenta un traffico d’armi spedite in Somalia dalla Sicilia. Pur trovando molti riscontri al suo racconto l’argomento non verrà sviluppato a fondo dai magistrati, anche se andrà a far parte delle migliaia di pagine che compongono l’infinita storia del processo per la morte di Rostagno. Le dichiarazioni di Di Cori restano come testimonianza, una testimonianza che offre molte chiavi per aprire porte che evidentemente non devono essere aperte. Due anni prima della nuova pista affidata ai magistrati di Trapani, nel 94, un commando di sette uomini, a pochi metri dall’ambasciata italiana di Mogadiscio, aveva aperto il fuoco uccidendo Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. I due giornalisti del Tg3 erano in Somalia, ufficialmente per raccontare del contingente italiano in missione di pace nel paese in cui divampava la guerra civile, ma strada facendo Ilaria Alpi si era imbattuta in un traffico di armi e rifiuti tossici, grazie alle informazioni di importanti personaggi locali, che coinvolgeva sia i comandanti somali, i signori della guerra che stavano insanguinando il paese, che alcune navi di provenienza italiana. I due evidentemente vengono a conoscenza e sono in grado di documentare qualcosa che non doveva essere conosciuto. Lo conferma il fatto che durante il viaggio che riporta in italia i corpi martoriati dei due, sparirono sia i taccuini con gli appunti della Alpi che le immagini registrate da Hrovatin: qualcuno aprì i loro bagagli rompendo i sigilli apposti per preservare le indagini. Sergio Di Cori Modigliani è un giornalista investigativo. Ha lavorato all’Unità negli anni 70 e poi si è trasferito in California. E’ un personaggio scomodo, è scrittore, artista, blogger, è osteggiato dai media ufficiali perchè le sue inchieste entrano nel vivo dei rapporti tra potere politico-finanziario ed enti di malaffare spesso nascosti nei gangli dello Stato. Argomenti fastidiosi per gli editori. In più ha un vissuto intenso, negli anni 70 era immerso nel movimento di contestazione ed è in quegli anni che conosce personalmente Mauro Rostagno, che all’epoca scriveva libri con Renato Curcio nella neonata facoltà di Sociologia a Trento, diventava poi un leader di Lotta Continua, prima di rinascere in India come seguace del guru Bhagwan Shree Rajneesh, famoso in occidente come Osho, e tornare infine in Italia fondando la comunità di recupero per tossicodipendenti Saman e iniziando la sua attività di giornalista che da una rete televisiva locale denunciava il malaffare nel trapanese. Nelle sedici pagine di verbale che Di Cori riempie nel ’96, davanti al procuratore capo di Trapani Gianfranco Garofalo, c’è il racconto delle confidenze ricevute da Rostagno. Sei mesi prima di essere assassinato il leader della comunità Saman telefona Di Cori per fissare un appuntamento e parlargli di una forte preoccupazione che lo aveva assalito e lo rendeva molto nervoso. Quando si vedono dieci giorni dopo la telefonata, siamo a marzo dell’88, Rostagno gli racconta di aver incontrato di notte la moglie di un generale, con cui aveva una relazione, vicino Trapani, in prossimità di una pista per aerei che sembrava abbandonata. Dalla macchina in cui si trovano Rostagno assiste a una scena incredibile.Riporta così il verbale di Di Cori Attilio Bolzoni su Repubblica del 5 dicembre 1988: “Mauro vide un aereo militare, due camion e soldati…dalla pancia dell’ aereo aveva visto scaricare delle casse, uno dei soldati aveva preso delle mitragliatrici dall’interno della cassa…Mauro era convinto che si trattasse di un’operazione sporca organizzata direttamente dal governo italiano, coperta dal ministero degli Esteri, e che quel carico d’ armi fosse destinato alla Somalia”. La pista d’atterraggio verrà individuata dagli inquirenti immediatamente, a conferma delle parole di Di Cori, ma non è tutto. Rostagno, poco tempo dopo il primo avvistamento, torna nei pressi dell’aeroporto fantasma e riesce a filmare la stessa operazione di carico di armi, che si ripete identica. Poi parla del filmato registrato a Francesco Cardella, che morirà a Managua nel 2011. Cardella in un primo momento, indipendentemente dalle dichiarazioni di Di Cori, verrà accusato e poi prosciolto per favoreggiamento nella morte di Rostagno, di cui aveva preso il posto dopo la morte a capo della comunità Saman. Non farà mai più ritorno in Italia dal Nicaragua, dove si era rifugiato grazie all’amicizia con il presidente Daniel Ortega, nemmeno dopo il proscioglimento. Rostagno quindi parlò a Cardella del filmato che testimoniava il traffico d’armi e Cardella ne fece una copia. Successivamente tra i due scoppiò una lite furibonda, perchè Cardella non voleva assolutamente che Rostagno raccontasse a nessuno quel che aveva visto. Dalla testimonianza di Di Cori emerge che Rostagno non aveva raccontato niente di tutta la storia del traffico d’armi alla moglie, Chicca Roveri, per non farla preoccupare. La Roveri, all’epoca dell’irruzione sulla scena processuale di Di Cori, era accusata anche lei di favoreggiamento per l’omicidio del marito, ma verrà prosciolta. Ed è proprio per scagionare Chicca Roveri che Sergio Di Cori ha deciso di vincere la paura e testimoniare su quelle rivelazioni di Rostagno. Perchè con il traffico di armi si muore prima ancora che le armi arrivino a destinazione, soprattutto se sono coinvolti uomini in divisa coperti dal segreto di Stato. Otto anni dopo l’omicidio Rostagno, vinta la paura di rappresaglie, la deposizione di Di Cori fa quindi luce su questo aspetto inedito della vicenda. Gli inquirenti trovano molti riscontri alle sue dichiarazioni, che coinvolgono molti personaggi politici e militari importanti dell’epoca, ma decidono alla fine di non proseguire nelle ricerche. Il processo per l’omicidio Rostagno si concluderà nel 2018 con la sentenza d’appello che proscioglierà il presunto killer Vito Mazzara, esecutore di altri omicidi di mafia, mentre come mandante individuerà e condannerà il capomafia locale Vicenzo Virga. Viene quindi privilegiata la pista mafiosa dai giudici. Eppure durante il processo era emerso un complesso intreccio che passava dalla massoneria a Gladio ai servizi segreti, tramite depistaggi con tanto di segreti di Stato opposti dai servizi segreti alla magistratura, dopo che era stata seguita una pista su un possibile traffico d’armi. Cioè la pista su cui oggi si riapre l’inchiesta sulla morte di ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Nel 1994, quando vengono uccisi in Somalia i due giornalisti del Tg3 sono passati sei anni dal delitto Rostagno. In comune i tre omicidi non hanno più soltanto i depistaggi e le intromissioni delle barbe finte per ridurre a semplici regolamenti di conti e furti di piccolo cabotaggio quelle che sono le parti terminali di un disegno internazionale ben più complicato e inconfessabile. Perché c’è un quarto omicidio che avviene tra quello di Rostagno e quello degli inviati della Rai. E’ molto più che una fiction, è la tragedia di un Paese come l’Italia che deve fare i conti con la propria storia parallela accanto a quella ufficiale. Parliamo del maresciallo del Sismi Vincenzo Li Causi, a capo di una cellula Gladio nascosta all’interno del campo d’addestramento Scorpione di Trapani, situata, indovinate un po’, nei pressi dell’aeroporto in disuso di Milo, a pochi chilometri dalla sede della comunità Saman di Rostagno. E’ la pista d’atterraggio dove l’attivista antimafia filma militari italiani in divisa che caricano armi su un aereo, là da dove, in teoria, non doveva partire nessun aereo. Le basi di Milo e Chinisi erano utilizzate dal centro Scorpione.Il Centro Scorpione è stato una sede militare utilizzata dal Sismi, in particolare dalla settima divisione conosciuta come Gladio. È stato operativo dal 1987 al 1989 e ha ricevuto armi dalla Oto Melara di La Spezia, controllata da Finmeccanica. Del Centro Scorpione si è occupata più volte la magistratura contestando ad alcuni soggetti militari il reato di traffico di armi, perchéi servizi segreti che vi operavano svolgevano operazioni militari in Nord Africa, in Somalia ed in Albania. Li Causi, che aveva un passato prestigioso, fu uno dei protagonisti della liberazione del generale Dozier nel 1982, rapito dalle Brigate Rosse, viene ucciso a Balad, in Somalia, il 12 novembre 1993, probabilmente da “fuoco amico”, ma le circostanze vere non sono mai state chiarite, nel corso della missione militare italiana di pace Ibis II. L’autopsia sul suo corpo non fu mai eseguita. Poco prima di essere spedito in Somalia aveva cominciato a rispondere alle domande dei magistrati di Trapani sugli insoliti movimenti e scambi che vedevano protagonista il Centro Scorpione da lui diretto. Il giorno dopo la sua morte Li Causi avrebbe dovuto rispondere in Italia alle domande del giudice Felice Casson in merito a Gladio, l’operazione Stay-behind e il traffico di armi e scorie nucleari in Somalia. Gli stessi argomenti sui cui stava conducendo la sua inchiesta giornalistica Ilaria Alpi. Numerose testimonianze concordano sui cordiali rapporti tra Li Causi e Ilaria Alpi e dagli interrogatori effettuati durante l’inchiesta per l’omicidio Alpi-Hrovatin, tra questi il maresciallo Francesco Aloi, risulta che Li Causi fosse una fonte importante per le ultime ricerche effettuate dalla giornalista. Spetterà adesso alla magistratura verificare se ci sono dei nessi tra tutti questi omicidi che comunque hanno come comune denominatore di veder spuntare l’ombra del traffico d’armi sporco tra Italia e Somalia nel periodo in cui c’è grande amicizia tra i due paesi. L’Italia sotto la guida socialista di Bettino Craxi concesse fondi faraonici per opere di cooperazione internazionale mai portate a termine durante il regime del dittatore somalo Siad Barre. Ma che su tutti gli omicidi spuntino le ombre delle logge massoniche coperte trapanesi, dei servizi segreti e di Gladio, oltre che della mafia, è un fatto accertato sia dalle inchieste parlamentari che da quelle delle procure responsabili delle inchieste penali. C’è in tutto questo un aspetto che sarebbe grottesco se non ci fosse di mezzo la tragedia del duplice omicidio Alpi Hrovatin e l’ingiusta detenzione per ben diciassette anni del cittadino somalo Hashi Omar Hassan, accusato degli omicidi e assolto e risarcito poi con 3 milioni di euro dalla Corte d’Appello di Perugia il 19 ottobre 2016. Il lavoro della Commissione Parlamentare d’inchiesta presieduta dall’avvocato Carlo Taormina si concluse con una relazione secondo cui i due reporter erano stati uccisi nel corso di una rapina. Nessun altro movente dice la relazione finale approvata a maggioranza. Opinione che ancora due giorni fa Taormina ribadiva ai cronisti dell’Adnkronos, nonostante entrambi i testi ritenuti fondamentali da quella commissione si siano rivelati dei bugiardi. Parliamo di Ali Ahnmed detto “Jelle”, il principale accusatore di Hashi Omar Hassan, che poi ammise di essersi inventato tutto, e Ali Mohamed Bashir, il primo ad accorrere sul posto e a estrarre dalla macchina i cadaveri di Alpi e Hrovatin, portato in Italia e messo sotto scorta dalla Commissione Taormina per convalidare la tesi della rapina.Anche quest’ultimo ha confessato di aver mentito su tutto.