VOGLIO PARLARE DEL COMUNISTA ENRICO BERLINGUER

Da tante sue analisi che ho letto nei suoi libri, io non ho dubbi che il filo, mai spezzato nella sua vita politica, fosse rosso di colore e comunista-socialista di spessore.Questo filo continuo ed imprescindibile si manifesta anzitutto nell’idea che occorre superare il modo capitalistico di produrre ed i rapporti sociali in cui esso è radicato. La tesi e l’obbiettivo è quindi quello che si possa e si debba costruire il socialismo in Italia.• “Abolire ogni forma di sfruttamento e di oppressione dell’uomo sull’uomo, di una classe sulle altre, di una razza sull’altra, del sesso maschile su quello femminile, di una nazione sulle altre nazioni”.• “Occorre la pace fra tutti i popoli; il progressivo avvicinamento fra governanti e governati affinché la democrazia sia piena ed effettiva, e affinché la libertà diventi anche liberazione, la fine di ogni discriminazione nell’accesso al sapere e alla cultura”.Berlinguer si impegna quindi a cercare di concretizzare la gramsciana “rivoluzione in Occidente”, questione storicamente irrisolta dal movimento comunista e che egli pone all’ordine del giorno nell’Italia che aveva fatto della Costituzione democratica e antifascista la propria legge fondamentale. Perché voglio ricordare queste verità? Perché oggi sono mistificate e banalizzate. Volutamente, a mio parere. Sono analisi scomode ai più, ma attuali come non mai.Le cose che sento oggi, in giro, sono giudizi che non parlano di un capo politico comunista che per 12 anni ha guidato il Partito di sinistra più forte in Europa.“Era una gran brava ed onesta persona”, dicono i più, in contrasto con i politici attuali, mestieranti di scarso spessore, corrotti; praticamente una icona da ricordare con nostalgia.Basti pensare alla semplificazione consapevole del concetto della “questione morale” che nacque come avvertimento profondo alla politica di falsa modernizzazione craxiana. Essa venne raccontata come moralismo e priva di valenza politica. Oggi potremmo ripassarci quello che Berlinguer scriveva e diceva sulla questione morale ed applicarlo pari pari. • L’intento è stato quello di cancellare il comunista rivoluzionario democratico. “I partiti non fanno più politica. Politica si faceva nel 1945, nel 1948 e ancora negli anni Cinquanta e sin verso la fine dei Sessanta. Grandi dibattiti, grandi scontri di idee e, certo, anche di interessi corposi, ma illuminati da prospettive chiare, anche se diverse, e dal proposito di assicurare il bene comune. Che passione c’era allora, quanto entusiasmo, quante rabbie sacrosante! Soprattutto c’era lo sforzo di capire la realtà del Paese e di interpretarla. E tra avversari ci si stimava. De Gasperi stimava Togliatti e Nenni e, al di là delle asprezze polemiche, n’era ricambiato” E ancora:“I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai TV, alcuni grandi giornali. Per esempio, oggi c’è il pericolo che il maggior quotidiano italiano, il Corriere della Sera, cada in mano di questo o quel partito o di una sua corrente: ma noi impediremo che un grande organo di stampa come il Corriere faccia una così brutta fine. Insomma, tutto è già lottizzato e spartito o si vorrebbe lottizzare e spartire. E il risultato è drammatico. Tutte le “operazioni” che le diverse istituzioni e i loro attuali dirigenti sono chiamati a compiere vengono viste prevalentemente in funzione dell’interesse del partito o della corrente o del clan cui si deve la carica. Un credito bancario viene concesso se è utile a questo fine, se procura dei vantaggi e rapporti di clientela; un’autorizzazione amministrativa viene data, un appalto viene aggiudicato, una cattedra viene assegnata, un’attrezzatura di laboratorio viene finanziata, se i beneficiari fanno atto di fedeltà al partito che procura quei vantaggi, anche quando si tratta soltanto di riconoscimenti dovuti”. Lei fa un quadro della realtà italiana da far accapponare la pelle. (E.Scalfari) “E secondo lei non corrisponde alla situazione?”. Debbo riconoscere, signor segretario, che in gran parte è un quadro realistico. Ma vorrei chiederle:se gli italiani sopportano questo stato di cose è segno che lo accettano o che non se ne accorgono. Altrimenti voi avreste conquistato la guida del Paese da un pezzo. “La domanda è complessa. Mi consentirà di risponderle ordinatamente. Anzitutto: molti italiani, secondo me, si accorgono benissimo del mercimonio che si fa dello Stato, delle sopraffazioni, dei favoritismi, delle discriminazioni. Ma gran parte di loro è sotto ricatto. Hanno ricevuto vantaggi (magari dovuti, ma ottenuti solo attraverso i canali dei partiti e delle loro correnti) o sperano di riceverne, o temono di non riceverne più. Vuole una conferma di quanto dico? Confronti il voto che gli italiani hanno dato in occasione dei referendum e quello delle normali elezioni politiche e amministrative. Il voto ai referendum non comporta favori, non coinvolge rapporti clientelari, non mette in gioco e non mobilita candidati e interessi privati o di un gruppo o di parte. È un voto assolutamente libero da questo genere di condizionamenti. Ebbene, sia nel ’74 per il divorzio, sia, ancor di più, nell’81 per l’aborto, gli italiani hanno fornito l’immagine di un Paese liberissimo e moderno, hanno dato un voto di progresso. Al nord come al sud, nelle città come nelle campagne, nei quartieri borghesi come in quelli operai e proletari. Nelle elezioni politiche e amministrative il quadro cambia, anche a distanza di poche settimane. Ma io credo di sapere a che cosa lei pensa: poiché noi dichiariamo di essere un partito “diverso” dagli altri lei pensa che gli italiani abbiamo timore di questa diversità”. Sì, è così, penso proprio a questa vostra conclamata diversità. A volte ne parlate come se foste dei marziani, oppure dei missionari in terra d’infedeli: e la gente diffida. Vuole spiegarmi con chiarezza in che consiste la vostra diversità? C’è da averne paura? “Qualcuno, sì, ha ragione di temerne, e lei capisce subito chi intendo. Per una risposta chiara alla sua domanda, elencherò per punti molto semplici in che consiste il nostro essere diversi, così spero non ci sarà più margine all’equivoco. Dunque: primo, noi vogliamo che i partiti cessino di occupare lo Stato. I partiti debbono, come dice la nostra Costituzione, concorrere alla formazione della volontà politica della nazione: e ciò possono farlo non occupando pezzi sempre più larghi di Stato, sempre più numerosi centri di potere in ogni campo, ma interpretando le grandi correnti di opinione, organizzando le aspirazioni del popolo, controllando democraticamente l’operato delle istituzioni. Ecco la prima ragione della nostra diversità. Le sembra che debba incutere tanta paura agli italiani?”. Lei ha detto varie volte che la questione morale oggi è al centro della questione italiana. Perché? “La questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte sfere della politica e dell’amministrazione, bisogna scovarli, bisogna denunciarli e bisogna metterli in galera. La questione morale, nell’Italia d’oggi, fa tutt’uno con l’occupazione dello Stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt’uno con la guerra per bande, fa tutt’uno con la concezione della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semplicemente abbandonati e superati. Ecco perché gli altri partiti possono provare d’essere forze di serio rinnovamento soltanto se aggrediscono in pieno la questione morale andando alle sue cause politiche. Ma poi, quel che deve interessare veramente è la sorte del Paese. Se si continua in questo modo, in Italia la democrazia rischia di restringersi, non di allargarsi e svilupparsi: rischia di soffocare in una palude. Ma non è venuto il momento di cambiare e di costruire una società che non sia un immondezzaio?”.Intervista del 1981Le parole ricorrenti sono pietre (“rivoluzione”, “fuoriuscita dal capitalismo”, “classe operaia”, “lotta di classe”, “comunismo”) che Berlinguer usava sempre per il loro significato valoriale, come riflessionì di provenienza marxiana e gramsciana, davvero di una via per una radicale trasformazione dei rapporti sociali: Una via diversa sia dal socialismo di matrice sovietica, sia dalle socialdemocrazie. 1969il 1969, a Mosca, nella Conferenza internazionale dei partiti comunisti ed operai, Berlinguer rifiuta la teoria del “partito guida” e dell’uniformazione dei modelli di socialismo a quello sovietico, rivendicando l’originalità e la specificità della via italiana al socialismo, da realizzarsi nella democrazia, nel pluralismo, nel pluriparitismo: “Noi ci battiamo per una società socialista che sia il momento più alto dello sviluppo di tutte le conquiste democratiche e garantisca il rispetto di tutte le libertà individuali e collettive, della libertà religiosa, della cultura, delle arti e delle scienze. Noi pensiamo che in Italia si possa e debba non solo avanzare verso il socialismo, ma anche costruire la società socialista, col contributo di forze politiche, di organizzazioni, di partiti diversi e che la classe operaia possa e debba affermare la sua funzione storica in un sistema pluralistico e democratico” Un salto di democrazia enorme, che non ha eguali dentro alla politica dei blocchi 1977sempre a Mosca per la rivoluzione d’ottobre :“L’abolizione della democrazia politica genera la resurrezione di uno Stato autoritario, premoderno, addirittura poliziesco”. Berlinguer capisce bene che un socialismo senza democrazia politica è un socialismo non soltanto elementare, ma anche difettoso in senso tecnico perché non riesce più a funzionare soddisfacentemente neppure sul piano produttivo. La rivoluzione, quindi, non solo come mutamento dei rapporti di produzione, ma anche come grande riforma culturale e morale, come superamento della gerarchia fra governanti e governati.E la critica si accentua anche verso la socialdemocrazia che non ha il coraggio di rivoluzione culturale:“Incapaci di superare l’universo dei rapporti sociali borghesi, cioè lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, e di raggiungere un’idea non solo formalistica della democrazia, ma intesa come liberazione sostanziale, come autogoverno dei produttori associati.” Il 1977 è un anno importante. Il Paese è attraversato da una crisi economica pesantissima. Ma il Pci ha alle spalle tre successi straordinari: la vittoria nel referendum sul divorzio, Le amministrative del ’75 (passa dal 27,9 al 33,5 %) quello delle elezioni politiche dell’anno successivo, quando va a votare il *93,4%* degli aventi diritto e il Pci raccoglie il **34,4** per cento dei voti (oltre 12 milioni e 600 mila). Berlinguer apre, a quel punto, una riflessione di straordinaria portata culturale e politica e promuove, a 15 giorni di distanza l’una dall’altra, due iniziative:1. un convegno rivolto agli intellettuali italiani, presso il Teatro Eliseo di Roma,2. la conferenza nazionale delle lavoratrici e dei lavoratori comunisti, presso il Teatro Lirico di Milano. Sia agli operai che agli intellettuali, Berlinguer pone una questione cruciale che si può così riassumere:“Giunti a questo punto della nostra forza non possiamo soltanto preoccuparci della redistribuzione della ricchezza prodotta dal lavoro sociale, che rimane per i comunisti un obiettivo irrinunciabile.Il tema che è maturo ‘sotto la pelle della Storia’ è ‘come, cosa produrre e per chi’ e lo svolgimento di questo tema è più che mai nelle mani dei produttori, della classe operaia e delle forze intellettuali riunite intorno ad essa”.“La questione della qualità dello sviluppo si impone oggi con sempre maggiore forza. Si impone per l’ormai evidente assurdità di perseguire all’infinito i traguardi di uno sviluppo puramente quantitativo l’accumulazione per l’accumulazione, che è una legge del capitalismo e si impone perché, anche quando si vengono in qualche misura soddisfacendo bisogni elementari, sorge il problema di una compiutezza diversa e più alta dell’esistenza umana. In definitiva, la questione posta è che non si può rimanere imprigionati nel recinto dei rapporti sociali dati, che ormai rappresentano marxianamente catene per l’ulteriore sviluppo delle forze produttive. Per promuovere un nuovo incivilimento occorre intaccare il modello capitalistico di accumulazione. La questione del governo si pone sì, ma non come occupazione dello Stato da parte di un partito, bensì come profondo rinnovamento delle classi al potere e dei metodi di governo. Perché ciò avvenga :“è necessario un intervento innovativo dell’assetto proprietario nell’assetto delle imprese”. Quella che Berlinguer chiama in causa è precisamente la questione proprietaria, di cui tracce ben visibili sono presenti nell’architettura della Costituzione repubblicana e, in modo strutturalmente definito, in quel titolo III che era rimasto in latenza per oltre un quarto di secolo.Ma qui Berlinguer va oltre e prende per le corna il tema della transizione al socialismo. “L’Italia è la nazione nella quale la crisi è più grave che in altre aree del mondo capitalistico e nella quale, però, sono maggiori che in molti altri paesi le possibilità per lavorare dentro la crisi stessa, per farla diventare mezzo per un cambiamento generale della società”. Quello che egli pone dunque all’ordine del giorno è un nuovo livello dell’egemonia del proletariato. E’ cioè la necessità di abbandonare ogni dimensione corporativa e guadagnare la capacità di guardare al tutto da un punto di vista di classe. Berlinguer lo fa affrontando la questione da due lati: dal lato dei consumi, contro il consumismo che rende il popolo succube di bisogni fittizi e di forze estranee, per affermare consumi “socialmente ricchi”; e dal lato della produzione, che nell’attuale sistema ha come unica bussola il profitto privato. Berlinguer porta dunque la riflessione politica ad un livello, mai raggiunto prima, di comprensione del processo storico e del ruolo della classe operaia verso la costruzione di una società in cui i produttori associati, riuniti in libere e democratiche istituzioni, possano davvero promuovere il proprio autogoverno e divenire protagonisti del proprio destino. Questa proposta politica sarà fortemente fraintesa e altrettanto osteggiata, fuori e dentro il partito, da destra e da sinistra. L’accusa che gli verrà mossa sarà quella di “pauperismo”, di “ascetismo”. Berlinguer replicherà seccamente, 15 giorni dopo, proprio nelle conclusioni della conferenza operaia, con queste parole: “La proposta politica di austerità qual è da noi intesa può essere fatta propria dal movimento operaio proprio in quanto essa può recidere alla base la possibilità di fondare lo sviluppo economico italiano su quel dissennato gonfiamento del solo consumo privato, che è fonte di parassitismi e di privilegi, e può invece condurre verso un assetto economico e sociale ispirato e guidato dai principi della massima produttività generale, della razionalità, del rigore, della giustizia, del godimento di beni autentici, quali sono la cultura, l’istruzione, la salute, un libero e sano rapporto con la natura. La politica di austerità deve essere diretta precisamente contro la politica restauratrice e reazionaria, e cioè sia contro l’insania consumistica, sia contro il tentativo di far sì che l’uscita dalla crisi sia pagata solo dalla classe operaia e dai lavoratori. Ecco dove sta oggi lo scontro di classe. Qualcuno, sentendoci parlare di austerità ha creduto di poter fare della facile ironia: forse voi comunisti hanno detto state diventando degli asceti, dei moralisti?Risponderò con le parole che pronunciò , mentre infuriava ancora la guerra nel Vietnam, il primo ministro di quel paese, compagno Pham Van Dong: ‘Il socialismo non significa ascetismo. Sostenere una simile argomentazione sarebbe ridicolo, reazionario. L’uomo è fatto per essere felice: solo che non è necessario, per essere felici, avere un’automobile di lusso… Oltre un certo limite materiale le cose materiali non contano poi gran che; e allora la vita si concentra nei suoi aspetti culturali e morali. Noi vogliamo che la nostra vita sia una vita completa, multilaterale, ricca e piena, una vita nella quale l’uomo esprime tutti i suoi valori ideali. E’ questo che da senso alla vita, che dà valore ad un popolo’ e aiuta la serenità delle persone”. Ma possibile che non si comprenda che il PD non è un erede del PCI, (nessuno lo è, perchè nessuno ha un segretario a quel livello), ma il PD è altro dal socialismo e dal comunismo. Nemmeno un partito socialdemocratico dopo Renzi. Tutti moriamo, ma non è vero che tutti siamo sostituibili.Ci vuole tanta passione, studio, elaborazione, umiltà, onestà. Le avevamo. Se solo ristudiassimo la vita politica dell’ultimo comunista, avremmo motivazioni e coraggio per dire tutti “io vorrei un Partito comunista (chiamatelo come volete) che sappia riunire le diversità ripartendo dai valori socialisti e comunisti così ben presenti nelle narrazioni berlingueriane” Fonti: i miei libri di Berlinguer La Questione Comunista 1 e 2Dopo la PoloniaUn’altra idea del mondoLa via dell’austeritàLa Passione non è finita DocumentazioneArchivio storico di Rifondazione ComunistaRinascita- articoli di Berlinguer