CI SONO STORIE CHE NON VOGLIAMO CONOSCERE E C’È UN ACCORDO DI CUI NON PARLARE

CI SONO STORIE CHE NON VOGLIAMO CONOSCERE E C’È UN ACCORDO DI CUI NON PARLARE

Abituati come siamo a lasciarci anestetizzare da tutto, certe storie ci disturbano.Cerchiamo di evitarle. Non consideriamo raggiunto il tempo in cui aprire gli occhi.Preferiamo eccitarci con la rabbia, con l’odio, magari verso gli ultimi della fila.Con loro stiamo tranquilli, possiamo farlo, dopo di loro non c’è niente. Quelli proprio in fondo.Ma poi succede che qualche cosa filtra. Passano certe storie, certi racconti.Come quelli dei condannati in Gran Bretagna, sul container della morte.Come la storia di quel messaggio di una figlia alla propria madre.Il racconto di quella giovane donna, il suo rammarico che racchiude, in quell’ultimo messaggio, il senso del martirio raggiunto quasi alla fine dell’odissea:“Mi dispiace mamma. Il mio viaggio all’estero non è andato bene. Ti amo così tanto! Sto morendo perché non posso respirare”. È questo il messaggio straziante che rimbalza dal Vietnam, dove i genitori di una ragazza poco più che ventenne si dicono convinti che la loro figlia sia una delle 39 persone – 31 uomini e 8 donne – ritrovate senza vita nel container frigorifero di quel maledetto container attraccato a Purfleet. Meglio non sapere, meglio non crederci. Ma sono fatti di questi giorni non dei secoli passati quando i negrieri, gli schiavisti, compravano esistenze e vendevano carne da soma, da macello. Ed ancora, ecco le altrettanto drammatiche storie che sono pubblicate nel reportage de L’Espresso in edicola domenica. Storie che vanno ad aggiungersi ad altre.Qui vediamo, leggiamo, come se non bastasse quanto già sapevamo, di quel che succede dall’altra parte del nostro caro Mediterraneo, in Libia.Qui arrivano le nuove testimonianze di quei luoghi chiamati, per bontà, centri di detenzionema che in realtà sono i lager del nostro tempo.In quei luoghi la tortura, la privazione di tutto, le sopraffazioni, le umiliazioni sono la normalità a cui abituarsi.Qui i clan del mafiosi legati a Bija dettano la legge, controllano tutto, mandano emissari a Roma. Qui la galassia di trafficanti e mercenari travolge la dignità umana.In questi deserti delle indifferenze l’ipocrisia si fa complicità.Qui il nostro Paese si fa colluso, invischiato, si fa complice degli aguzzini.Lo fa per compiacere il suo popolo affamato di populismi.Il prossimo due novembre l’accordo, il memorandum sarà scaduto e l’Italia potrà tornare a ratificarlo a consideralo rinnovato lasciando proseguire la vergogna finanziata con i soldi di ognuno di noi.Si perché come definito nel febbraio del 2017, malgrado tutto, continueremo a sostenere concretamente non centri di accoglienza ma lager veri e propri.Così lasciando poi le nostre coscienze libere di credere che luoghi come Trik al Sikka, Zawhia siano al riparo dalla barbarie.