QUANDO FAUSTO COPPI SPIEGO’ COSA FOSSE LA BOMBA

Lo sport fonte inesauribile di leggende e magari di favole. Che gli uomini siano bambini cresciuti che hanno bisogno di favole lo sostenne già quel tennista superpolemico che fu Fausto Gardini. Fu sufficiente che negli anni 60, in una sua rubrica sul Guerin Sportivo, avanzasse il dubbio che il Grande Torino del dopoguerra, imbattibile in Italia, avesse coinciso con una nazionale azzurra che cifre alla mano, contava pochino. Contro Gardini si scatenarono furibondi i lettori che vedevano infranto un loro mito, qualcosa di cui avevano intimamente bisogno a prescindere da qualsiasi confronto critico col principio di realtà. E’ un pensiero che mi corre per la testa tutti gli anni, quando, il 2 di gennaio, sulla stampa, viene rievocata la morte di Fausto Coppi nella ricorrenza di quella data fatale. Oggi più che mai, che gli anni trascorsi sono 60. Certo, si tratta di uno dei più grandi ciclisti che l’Italia abbia avuto e anzi, molto probabilmente, il più grande. Però colpisce che nelle rievocazioni non vengano mai ricordate circostanze che fanno riferimento alla storia del ciclismo di quegli anni. Come se contestualizzare la storia di un campione non contribuisse a rendere più fedelmente la sua figura di sportivo e di uomo. Preferibile usare la mitologia, che rassicura il lettore, come il lieto fine di una fiaba rassicura il bambino che si può addormentare serenamente. Il bello è che proprio lo stesso Coppi, che un certo senso dell’ironia lo possedeva, rilasciò un’intervista, nel 1952, nella quale candidamente smontava una piccola parte di quella mitologia che lo avrebbe avvolto anche dopo la morte. In quella intervista Coppi dichiarava che lui, come tutti i colleghi, correva con una borraccia contenente non il caffé o una bevanda dissetante, ma “LA BOMBA”. In altre parole quella simpamina che, parole sue, poteva fungere da gambe di ricambio ed aiutarti così a vincere se solo avessi avuto fiducia in lei. Salvo poi, finito l’effetto e non calcolate bene le conseguenze, arrivare al traguardo il giorno seguente con mezz’ora di ritardo al grido di “Ho forato sette gomme e ho rotto il cambio”. Si sa, nel 1952, un anno di trionfi per Coppi, l’antidoping non c’era e a dire il vero anche il ciclismo professionista vegetava tutto in un piccolo mondo dell’Europa occidentale fatto di 7/8 nazioni (Italia, Francia, Benelux, Svizzera e Spagna). Altra musica risuonerà con l’entrata massiccia in scena di tedeschi ed inglesi prima, degli atleti dei paesi già socialisti poi (che ai tempi dei soviet gareggiavano solo nello sport dilettantesco). Una volta che avevi tenuto sotto controllo Kubler e Koblet, Poblet e Van Steenbergen, Louison Bobet e Charly Gaul, oltre che gli altri italiani, il gioco era fatto. Quando Coppi nel 1960, a 40 anni, morì di una malaria curata in ritardo, reduce da una partita di caccia in Alto Volta (ora Burkina Faso), tutti attribuirono la colpa alle scarse competenze dei medici italiani nel merito delle malattie tropicali. Si salvò infatti un altro ciclista Raphael Geminiani (francese di origine Lugo di Romagna), curato tempestivamente da medici che, causa una storia coloniale più datata della nostra, seppero diagnosticare prima la malattia. Solo qualche giornalista, tra cui Gianni Brera che pure amava Coppi, avanzò il dubbio che un contributo, magari minore, all’esito tragico di quella vicenda l’avesse dato il fisico di Fausto, più logorato della media, causa la passate vicende. Dovevano ancora arrivare gli anni in cui il doping avrebbe tenuto banco in toni meno leggeri di quelli usati da Coppi nella sua intervista. Coi drammi di Merckx, le tragedie di Simpson e di Pantani. Fino alla mega cancellazione di tutte e sette le vittorie al Tour di Lance Armstrong. Ma Fausto Coppi fu un mito e tale è rimasto. L’Italia di quegli aveva un grande bisogno di scoprire qualche certezza cui attaccarsi dopo un passato fatto di dittatura e di bombardamenti. Oggi probabilmente un bisogno analogo ci coinvolge, mentre l’incertezza colora di grigio il nostro futuro più ancora del nostro passato. E ci giriamo attorno, ma non scorgiamo nessun Fausto Coppi, pronto a consolarci.