SE L’ITALIA INVENTA IL DELITTO DI SOLIDARIETA’

Se l’Italia inventa il delitto di solidarietàL’Italia sta rischiando una nuova condanna? C’è un legame tra il caso “Hirsi Jamaa e altri”, che sei anni fa causò la sentenza contro il nostro Paese da parte della Corte europea dei Diritti dell’uomo per “tortura e trattamento inumano”, e quello di due settimane fa della nave della Ong spagnola Open Arms, bloccata a Pozzallo dalla Procura di Catania? Prima di dare una risposta al quesito ricordiamo brevemente i due fatti. Nel 2009, quando il ministro dell’Interno Maroni guidava gagliardamente la politica dei respingimenti, le nostre navi militari riportarono nell’inferno libico un gruppo di 200 persone quasi tutte di nazionalità somala ed eritrea. Ventiquattro di loro, l’eritreo Hirsi Jamaa in testa, fecero ricorso alla Corte di Strasburgo e la ebbero vinta: la Corte dei Diritti si espresse il 23 febbraio del 2012, constatando la violazione in più punti della Convenzione europea dei diritti umani, dal divieto di espulsioni collettive all’art.3 di quella Carta, tortura e trattamento inumano, appunto, perché la Libia non offriva alcuna garanzia di rispettare gli standard internazionali per i richiedenti asilo e rifugiati. E adesso il caso più recente. La nave dell’Ong spagnola Pro Activa Open Arms, attracca il 18 marzo scorso a Pozzallo (Ragusa) dopo aver salvato 215 persone, al termine di un viaggio drammatico. Open Arms ha raccolto quei poveretti in acque internazionali, a 73 miglia nautiche dalla costa libica, resistendo alle motovedette libiche che l’avevano minacciata con le armi. Ma siccome la solidarietà è diventata un reato, una volta a terra i soccorritori vengono incriminati dalla Procura di Catania, nientemeno che per “associazione a delinquere”, accusa in pochi giorni caduta, mentre resiste quella di “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina”. E qual è il fatto nuovo che potrebbe portare un giorno il nostro Paese dal banco degli accusatori a quello degli accusati? Una frase del giudice catanese Nunzio Sarpietro, nel decreto di convalida del sequestro della nave di Open Arms, a proposito della cosiddetta “zona Sar” (letteralmente “Search and Rescue), quella di ricerca e salvataggio definita dalla Convenzione internazionale di Amburgo del 1979. Ecco cos’ha scritto Sarpietro: “La circostanza che la Libia non abbia definitivamente dichiarato la sua zona Sar non implica automaticamente che le loro navi non possano partecipare ai soccorsi, soprattutto nel momento in cui il coordinamento è sostanzialmente affidato alle forze della Marina militare italiana, con propri mezzi e con quelli forniti ai libici”. Questa ammissione del coordinamento italiano è un “passaggio fondamentale” che cambia le carte in tavola, secondo Gianfranco Schiavone, vicepresidente dell’Asgi, l’Associazione studi giuridici per l’immigrazione. “La domanda che un magistrato dovrebbe farsi ora – ha spiegato il giurista al Redattore Sociale – è se è legittimo l’operato delle autorità italiane nel momento in cui coordinano i soccorsi con i libici…per restituire le persone in fuga ai libici”. Secondo Schiavone, “si possono ravvisare somiglianze con il caso Hirsi”, perché “l’Italia ha una responsabilità diretta nella decisione di rimandare le persone indietro ed esporle ancora una volta a una situazione di grave rischio”.L’Asgi nota come il giudice, nella sua ricostruzione, riconosca “che l’Ong ha ricevuto minacce esplicite con armi e che la situazione in Libia è quella che conosciamo” osserva che nemmeno l’accusa di favoreggiamento può funzionare, “alla luce della riserva di legge assoluta in materia di stranieri e di diritto d’asilo”. Inoltre, dove portare le persone da salvare non è a discrezione degli Stati, ma a guidare sono le normative internazionali sul soccorso in mare e sulla protezione dei rifugiati e sul divieto di tortura, e che il Codice di condotta Minniti ha un rilievo marginale. “Il giudice dovrebbe limitarsi a rilevare se vi siano state violazioni da parte di Open Arms relativamente alle norme sul soccorso”, è la conclusione di Gianfranco Schiavone. Vedremo chi ha ragione.