ORIENTALISMO & ORSETTISMO

Com’è noto nel racconto del mondo arabo è assai diffusa, in Europa come negli Stati Uniti, la malattia del paternalismo culturale: essa infetta in particolare certi uomini eterosessuali (ma anche donne), ed in base a questa patologia l’arabo viene guardato sempre con un malcelato senso di superiorità, ci si aspetta che si adegui e imbocchi l’unico sentiero che abbiamo segnato per lui, e ogni deviazione da questo percorso pseudo-teleologico finisce per risultare come la spia di un disagio, o addirittura la spiegazione ultima di una inestinguibile differenza ontologica. Il paternalismo culturale bypassa il razzismo ottocentesco – quello eugenetico e esplicitamente suprematista – e si stabilizza su una postura di auto percepita superiorità, che utilizza come metro di misura di tutto. Se il primo razzismo diceva in sostanza “non voglio che tu esista”, il secondo dice “voglio che tu esista per insegnarti come si esiste”, retaggio di una solida e radicata tradizione orientalista. Il razzismo del primo tipo tende a cogliere chi sta a destra (molto) mentre il secondo è totalmente bipartisan. Poco esplorata, invece, è un’altra forma di paternalismo culturale latente, che ha a che fare con un certo orientalismo di “segno positivo”, e che definirei deliberatamente “orsettismo”: l’orsettismo®️ è la tendenza, forse più femminile che maschile – ma comunque diffusa tra entrambi e quasi esclusivamente a sinistra – ad ostentare un (finto, puerile, vuoto, artificioso) amore incondizionato per “gli arabi”, come se appunto fossero degli orsetti. Tanta gente che in buona fede nn sa nulla del mondo arabo si mette a dire shukran, si tatua un arabo in testa, si arrampica sulla barricata opposta a quella dei suprematisti – che egualmente di solito nn sanno nulla – e procede per slogan vuoti, cuoricini, ostentazioni inutili, appiattimenti in buona fede della realtà, tenendo su un palmo di mano qualunque cosa abbia anche solo vagamente a che fare con gli arabi. Gli arabi come teneri cuccioli di koala, gli arabi come dei dolcissimi peluches a cui volere sempre molto bene, in quanto tali. Arabi che si, in fondo piacciono di più se rinunciano a una o più parti delle loro identità composite e, specularmente a quanto si augurano i paternalisti, diventano il più possibile come noi, allineano i loro desideri ai nostri, adeguano le loro prospettive alle nostre, ci danno l’impressione di un “incontro” tra culture che non esiste perché in realtà è unilaterale (tu incontri me), non ci caricano del peso di doverci confrontare con una o più diversità in un reale dia-logo. Che è qualcosa di diverso dai nostri millenari monologhi, e ci costringe(rebbe) ad una negoziazione a cui nessuno in questa parte di mondo ci ha mai abituato. L’orsettismo – “voglio che tu esista come mi aspetto, per rallegrarmi l’esistenza” – è l’altra faccia della medaglia: la dimostrazione che si fa un torto al prossimo, e lo si discrimina concretamente, lo si pone in condizione di irrimediabile subalternità, non solo quando se ne ha una pregiudiziale idea negativa ma anche quando se ne ha una pregiudiziale positiva, egualmente basata su stereotipi, pigrizia euristica, appiattimenti della realtà a favore di una propria idea ex ante da non discutere mai, anzi, da confermare ex post con qualunque elemento che si riveli funzionale alla conferma (e quindi in malafede). Per trattare le persone da persone – non da eterni minorenni bisognosi di raddrizzata, così come non da cuccioli di cane, teneri a prescindere – bisogna davvero uscire (che non significa ignorare totalmente, e tantomeno eliminare integralmente dalla propria intima percezione) dalla logica della “civiltà”, che sta a monte di qualunque discorso che sento oggi, dei “paesi civili” e quelli incivili, come se fossero dei recipienti che contengono materia omogenea. Perché il rischio primario è quello di ritrovarsi vittime di una forma di razzismo che potrà rendersi palese ai vostri sinceri occhi solo quando sarà ormai troppo tardi (cioè quando diventerete in qualche modo dei neocon). Cia’