MORO, 9 MAGGIO 1978. “SOTTO UN DOMINIO PIENO E CONTROLLATO”. IL SEQUESTRO DELLA REPUBBLICA

Pubblichiamo un estratto daIo ci sarò ancora. Interventi sul delitto Moro e la crisi della Repubblica, Roma, PaperFirst, 2019, pp. 46-52. di Miguel Gotor. Il 16 marzo 1978, il giorno in cui il Parlamento doveva votare la fiducia al nuovo governo guidato da Giulio Andreotti che, per la prima volta dal 1947, avrebbe avuto il sostegno esterno del Pci, le Brigate rosse rapirono in via Fani Aldo Moro, allora presidente del Consiglio nazionale della Dc, e trucidarono i cinque uomini della sua scorta. Quel giorno entrarono in azione almeno una decina di brigatisti che sarebbero stati arrestati tutti – l’ultima, Rita Algranati, nel 2004 – tranne Alessio Casimirri, tuttora latitante in Nicaragua. Alcune testimonianze oculari attestarono la partecipazione all’agguato anche di due individui su una moto Honda mai identificati, una presenza sempre negata dai brigatisti. Ancora una volta nella storia nazionale, un atto di efferata violenza segnava il cambiamento di una fase politica. In quella tiepida mattina romana che già anticipava una primavera rosso sangue, mentre, il presidente del Consiglio incaricato Andreotti, raggiunto dalla notizia del rapimento di Moro, era aggredito da una scarica di conati di vomito, iniziavano i cinquantacinque giorni più bui della storia della Repubblica. Se i brigatisti avessero voluto uccidere Moro e basta, lo avrebbero fatto già il 16 marzo, insieme con la scorta. In realtà l’obiettivo della loro «propaganda armata» era più raffinato: eliminare l’ostaggio dopo avere destabilizzato il quadro politico e istituzionale mediante il suo rapimento, funzionale a distruggerne l’immagine sul piano civile e morale affinché il suo progetto di allargamento della base democratica dello Stato non avesse eredi. Il governo, con il sostegno del Pci, respinse con fermezza qualsiasi trattativa pubblica sin dalla giornata del 16 marzo secondo un doppio principio: il rifiuto di accettare un eventuale scambio di prigionieri, cedendo così al ricatto imposto dai brigatisti dopo avere ucciso cinque servitori dello Stato; la rinuncia a compiere qualsiasi atto che potesse implicare un riconoscimento giuridico delle Brigate rosse in qualità di forza combattente poiché ciò avrebbe significato legittimare la violenza armata come metodo ordinario di lotta politica e propiziare nuovi sequestri.