LA MAPPA DEL COVID NEL MONDO. I MOLTI VOLTI DELL’INFEZIONE

Coronavirus, forse, per l’Italia, una tregua estiva. 2/300 casi al giorno dopo che diverse riaperture potevano farci temere di peggio. Ancora la guardia va tenuta alta. I piccoli focolai non mancano. In Lombardia ma anche in Piemonte, Emilia e a Roma. Ma se guardiamo in giro per il mondo il quadro cambia in peggio, pesantemente. Cina a parte, se riuscirà a circoscrivere il focolaio del mercato di Pechino, confermandosi il paese, tra i più colpiti, con la situazione maggiormente sotto controllo. Tra tutti i paesi con un numero di contagiati oltre i 30mila, uno che, nell’ultima settimana, se l’è passata relativamente meglio è stata proprio l’Italia. 250 casi di media al giorno con una buona parte di casi asintomatici e un tasso di crescita giornaliero di poco sopra lo 0,1% quotidiano. Meglio di noi la Svizzera, da tempo covid free o quasi. Al nostro livello il Belgio che però in passato ha pagato un prezzo di contagiati e deceduti in proporzione superiore al nostro, nonché la Spagna. Poi, sempre peggiorando, Olanda, sia pure solo in termini relativi. Poi, in termini sia relativi che assoluti, la Francia e soprattutto la Germania, che ha sofferto recentemente un grave focolaio in un mattatoio della Westfalia-Alto Reno. Meno decifrabile la Svezia che, coi suoi soli 10 milioni di abitanti, dopo avere proposto un modello di chiusura decisamente soft che pareva funzionasse, ha visto invece, in tempi recenti, uno stabilizzarsi del numero dei nuovi casi quotidiani, che non intende scendere significativamente. Con oscillazioni tra i 700 e i 1400 casi quotidiani negli ultimi 15 giorni. Cifre che non sono certo fatte per tranquillizzare. Come non può tranquillizzare la costante crescita oltre i mille casi al giorno del Regno Unito. Se poi ci riferiamo all’occidente in senso lato abbiamo il disastro made in Usa, con un’epidemia che dopo avere travolto New York, si estende in lungo e in largo mietendo vittime dalla Florida alla California, dall’Illinois al Texas, all’Arkansas. Un poco meglio il Canada, che potendo fruire di un distanziamento naturale tra gli abitanti, legato alla natura dei territori, sembra avere avviato una frenata significativa delle infezioni una volta superato il tetto dei 100mila casi. Se invece parliamo dell’Europa come entità geografica, non possiamo fare a meno di ricordare il disastro della Russia, con Mosca che conta nella sua area metropolitana più del doppio del numero di contagiati della Lombardia, per un numero di abitanti pressoché analogo. Comunque sia non si può dire che l’Italia, dovendo pagare fin dall’inizio un effetto sorpresa e la disgraziata indicazione dell’Oms sullo scarso uso dei tamponi, esca dal confronto con gli altri paesi, di dimensioni e di profilo sociale economico e culturale analogo, dovendosi vergognare della sua storia. Peraltro una cosa è certa. Non è necessario avere effettuato studi di epidemiologia per capire che, tra i paesi che hanno costituito i poli della diffusione del virus, l’angolo del mondo relativamente meno toccato dall’aggravarsi della situazione, negli ultimi tempi, è l’Europa occidentale e più specificamente i paesi della Ue. E’ altrove che si possono incontrare le situazioni più tragiche, sia per quello che riguarda i deceduti sia, ancora di più, per quello che riguarda i contagiati (facciamo ovviamente riferimento ai soli paesi con un numero di contagiati superiore alle 30mila unità).. Stabilito dunque che nella Ue il covid si sta prendendo un relativo attimo di respiro, guardiamo un poco oltre i confini del nostro continente. In tal caso, se parliamo delle tragedie, dobbiamo fare riferimento a scenari diversificati, non solo dal punto di vista geografico. Per meglio dire la tragedia che sta attraversando l’America latina presenta più di uno scenario. E ciscuno di tali scenari si distingue da quelli presenti in Africa. E, per concludere con l’Asia, in quest’ultimo continente si presentano ancora almeno due scenari tra loro diversi. E ciascuno di quelli di cui abbiamo parlato non è sovrapponibile a quanto è avvenuto o avviene in Europa, in Cina o nel Nord America. Una sintesi importante della situazione è contenuta in un recente rapporto dell’Ecdc (European Centre for Desease Prevention and Control), un’Agenzia della Ue. Ad esso faremo qui implicito riferimento con un solo appunto. Che la situazione del covid sul pianeta è in continua evoluzione e anche riguardo alle cifre prodotte dall’Ecdc è opportuno fare, per quanto possibile, un aggiornamento in corsa col tempo. Quello che nel nostro piccolo, abbiamo cercato di eseguire portando la massima attenzione anche a quanto avvenuto negli ultimi giorni. A tutti coloro che abbiano ascoltato anche una sola volta qualche cronaca dal mondo, relativa al covid, non può essere di certo sfuggito il fatto che ilBrasilecostituisca i paese che forse simboleggia meglio di qualunque altro i disastri prodotti dal coronavirus nel terzo mondo. Anche il rapporto dell’Ecdc lo sottolinea e per citare lo stato brasiliano col maggior numero di infezioni si riferisce San Paulo. In assoluto è vero, ma può risultare fuorviante il pensare al fattore metropolitano come il principale nel disastro brasiliano. Lo stato di San Paulo ha il maggior numero di contagiati per la semplice ragione che ospita un numero di abitanti pari alla Spagna. Certo ci sono angoli e città di quello stato in cui la situazine è insostenibile, ma la caratteristica tipica dei contagi nel paese consiste nel suo concentrarsi negli stati del nord. Dall’Amazzonia alle zone minerarie del Parà e dell’Amapà, fino al Roraima, terra degli Yanomami. In essi il rapporto tra il numero dei contagiati e quello degli abitanti è, in un caso, il doppio di quello del resto del paese, che viaggia invece sulle stesse cifre percentuali di San Paulo e di Rio: questo nel caso del Parà. Diventa quasi il triplo in Amazzonia e nel Roraima e addirittura sei volte tanto nel piccolo stato minerario di Amapà. Come mai questo ribatamente nei fattori principali della malattia? Sicuramente il fatto che Bolsonaro abbia tolto i limiti che contenevano gli spostamenti verso le terre abitate dagli indios, maggiormente vulnerabili al virus. Ma anche il lavoro nelle miniere (ferro, magnesio, manganese) presenta un elevato fattore di rischio-contagio come avvenuto nella regione mineraria della Ruhr, in Germania. Il modello Brasile ha dunque caratteristiche sue proprie. Più assimilabile invece ai modelli di diffusione del virus di stampo europeo e asiatico quanto avviene inPerùe inCile. In entrambi icasi le aree metropolitane (Lima e Santiago), hanno prodotto un ritmo vertiginoso di crescita delle infezioni, più che mai conentrate nelle due aree vicine alle capitali (più o meno altrettanto si può dire per Città del Messico). Basti comunque ricordare che la presenza percentuale di popolazione infetta viene registrata nelle capitali in misura dalle due alle tre volte superiore a quanto accade nel resto del paese. Analogamente a quanto detto per l’America latina, sarebbe troppo semplificatoria la definizione di un unico modello asiatico di diffusione del virus. A parte il caso cinese e in generale quello delle nazioni dell’estremo oriente, il boom attuale del covid in Asia può essere riferito a due diversi meccanismi, a volte interagenti tra loro, quello che pervade il così detto subcontinente indiano (India,Pakistan,Bangladesh) e quello che si è consolidato nei paesi delle monarchie petrolifere del Golfo Persico (Arabia Saudita+ una serie di piccole nazioni paesi tra le quali spicca ilQatar). Non terremo qui conto del caso particolare dell’Iraq e di quello dell’Iran che meriterebbero un discorso a parte legato ai conflitti armati che hanno coinvolto i due paesi negli ultimi 40 anni India, Pakistan e Bangladesh vanno segnalati come paesi in cui il virus si è diffuso solo in tempi relativamente recenti. Per tali ragioni iil numero dei contagiati in tutto il paese, rispetto a quello degli abitanti, potrebbe apparire relativamente contenuto. Niente di più fallace, per due ragioni. La prima è che il tasso di crescita è talmente violento, oggi senza confronti al mondo, che è possibile prevedere un forte mutamento in peggio del quadro statistico sul breve periodo. La seconda è che il concentrarsi della infezione nelle principali metropoli come Delhi, Mumbay o Islamabad, ha determinato il collasso delle strutture sanitarie locali con la consegueza di una situazione urbana allucinante. Gente rifiutata da ospedali che segnalano il tutto esaurito, morti nemmeno più conteggiabili, quantunque la giovane età della popolazione possa lasciare pensare a tassi di mrtalità, rispetto ai contagi, inferiori alla media mondiale. In una parola una catastrofe appena mascherata da numeri che fanno riferimento a una “media” assai poco significativa. Con l’aggravante decisiva di un’economia che non poteva permettersi un lockdown proòungato e che ha riaperto consapevole di andare incontro a una catastrofe inevitabile. Nei paesi del Golfo Persico la situazione potrebbe apparire rovesciata, ma lo è solo in parte. Basti però pensare che la sola India col suo 1 miliardo e 353 milioni di abitanti contiene 25 volte gli abitanti dei paesi del golfo colpiti dall’epidemia (Arabia Saudita, Qatar, Emirati, Kuwait, Oman, Bahrain). Ma il numero dei contagiati nel subcontinente indiano e nei paesi del golfo è praticamente lo stesso. Abbiamo visto la tragedia dei primi. Possiamo solo immaginare in cosa possa consistere quella dei secondi avvicinati a virus dai traffici del petrolio e non solo. Come mai se ne parla così poco? Da un lato va forse considerato che la diffusione nei paesi arabi considerati è avvenuta in tempi in cui ci occupavamo solo della nostra realtà e che ora i ritmi di crescita di tali nazioni non sono quelli frenetici e collassanti dell’area indiana. Ma un altro dato potrebbe anche essere costituito dal limitatissimo numero dei morti. Incredibile quello del piccolo Qatar. 2milioni e 800mila abitnti, 90mila contagiati ma solo un centinaio di decessi. Come mai? La risposta ahimé pià probabile consiste nel fatto che in questi paesi la maggioranza degli abitanti è costituita da immigrati (per lo più prprio da India e Pakistan). Probabile che possano essere censiti una volta che denunciano la malattia, ma che vengano più raramente classificati come defunti in quanto non dotati di cittadinanza e quindi praticamente ignorati dale statistiche ufficiali (in Qatar gli immigrati costituiscono l’80% degli abitanti). Una tragedia dunque, segnata dal decesso di lavoratori semisconosciuti dalle statistiche anche a causa di uno stato di semischiavitù. Ma che dovrebbe gravare sulle coscienze di noi tutti come cittadini di un mondo senza confini. Infine l’Africa, come continente di cui tutti dicono “Speriamo che i covid non colpisca anche lì perché la catastrofe sarebbe immane”. In realtà ci sono due nazioni in cui il covid ha già colpito duramente, vuoi perché il clima è meno torrido che altrove, vuoi perché sono meno marginali ai commerci dell’occidente e meno periferici dei paesi del Sahel.SudafricaedEgitto. Simbolo del disastro è la fia di 3 kilometri di persone in attesa di una cesta di cibo, alla periferia di Johannesburg (Centurion). L’Ecdc sottolinea che l’intera Africa è passata da 100mila a 200mila casi in 18 giorni, in media con gli altri paesi pervenuti poi al disastrio totale. Vero ma è ancora pur vero che i 2/3 dei casi rimangono concentrati nelle due nazioni sopra indicate e che i paesi africani, memori di altre tragiche epidemie, hanno a lungo provato a blindare le loro principali città, dal Cairo a Lagos, per arginare la diffusione del fenomeno. Vero anche che molti operatori locali hanno scommesso sul convincimento della popolazione, senza ricorrere a misure restrittive impraticabili in quei climi, in quelle culture, in quelle economie. Esperimento riuscito? Certo coi 100mila contagiati del Sudafrica a carico non si può parlare di successo, ma se il Sahel, quanto meno, non esplodesse, si potrebbe parlare di limitazione del danno. Probabilmente molto emblematica potrebbe essere l’evoluzione del fenomeno in atto inNigeria, terzo paese del continente quanto a numero assoluto di contagi. Coi suoi 190 milioni di abitanti la Nigeria, nel caso esplodesse, potrebbe raporesentare una tragedia biblica di portata ancora superiore a quelle latinoamericane o asiatiche. Al momento la situazione è incerta . Solo un nigeriano su mille pare sia infetto (20mila in tutto), da un lato, ma il tasso di crescita dei malati è abbastanza elevato. Un 3,5% giornaliero comunque inferiore a quello sofferto dai paesi europei quando viaggiavano su questi numeri di infezioni. Il camerun si trova in situazione analoga. Forse è in questi paesi che si gioca la partita di una catastrofe inimmaginabile a ricordarci che al peggio non ci sia limite. Buona fortuna Africa, in un mondo globalizzato la tua sorte è anche la nostra. Sulla distinzione tra i due indicatori (deceduti e contagiati) ci sia permesso un breve chiarimento di ordine tecnico. A naso il conteggio dei deceduti parrebbe più affidabile essendo più difficile ignorare un decesso che non un contagio. Inoltre il numero ondivago dei tamponi effettuati incide pesantemente su quello dei contagi verificati. Ciononostante, alla prova dei fatti, il conteggio dei decessi si rivela ben poco idoneo ai fini dei confronti tra paese e paese, dato che non tutti i paesi adottano criteri e parametri analoghi per stabilire se il deceduto sia morto a causa del covid o per altre ragioni, sia pure in presenza di covid. Inoltre non sempre viene effettuato il tampone post mortem. Per di più, essendo il numero dei deceduti più basso, un singolo errore di valutazione secondo questo parametro pesa di più di quanto possa incidere una singola carenza nella rilevazione dei ben più numerosi contagi. E comunque se le statistiche basate sui deceduti fossero le più affidabili dovremmo avere un tasso di mortalità rispetto agli infetti, più elevato nei paesi con una sanità più vulnerabile. Viceversa, a parte la Germania, i tassi più alti si registrano in Europa (Belgio per primo) e i più bassi nell’Asia meridionale. Paesi, questi ultimi. in cui le terapie anticovid non possono essere certo considerate le più efficaci del mondo. Infine c’è pur sempre una precauzione utile da prendere, per ridurre l’errore dovuto al differente numero di tamponi effettuati, da paese a paese: quello di privilegiare i tassi percentuali di crescita di ogni singolo paese rispetto alla crescita in numero assoluto. Dove, effettivamente, il numero delle analisi effettuate determinerebbe un numero di positivi eccessivamente legato a fattori contingenti.