IL FICUS SPARTACUS

C’era una volta un giovane albero. Un Ficus Benjamin in fila assieme ad altri compagni dentro un vivaio. Allineati, ordinati. Con i fusti dritti e il fogliame verde, lucido e intenso, armoniosamente sparso ad arricchirne la chioma. Bellissimi. Ritti a fare bella mostra di sé in attesa che gli umani si accorgessero di loro e , uno alla volta, li portassero via, li restituissero alla terra e al sole. Benji, così si chiamava il nostro Ficus, o almeno così lo appellavano i compagni, aveva un sogno: dimorare su quel Lungomare di cui aveva tanto sentito parlare dove i suoi antenati facevano bella mostra di sé, liberi e imponenti di fronte allo Stretto. Era un ficus romantico lui. Ambizioso. Di indole ribelle, poco incline alla vita da vaso. Restare con le radici costipate dentro quel contenitore lo avrebbe costretto a ridurre la sua espansione, la sua crescita. Lui in cuor suo sapeva che avrebbe potuto raggiungere l’altezza di trenta metri e che le sue radici avrebbero potuto essere delle vere e proprie opere d’arte, come vene sul ventre della terra. Aspettava silenzioso che si compisse il suo destino,ma la sua linfa ribolliva di rabbia ogni volta che venivano esaminati minuziosamente, valutati, irrisi e derisi o, semplicemente, scelti. Aveva scoperto Benji che c’era stato un tempo, o forse c’era ancora, non ricordava bene, in cui gli umani facevano la stessa cosa con appartenenti alla loro stessa specie. C’erano, pare, dei mercati appositi dove dei mercanti esaminavano denti, corporatura, capelli di esseri umani in catene. Lui che era un albero e sognava il sole non riusciva a comprendere. Erano sempre restii a selezionare lui. Lo osservavano, ne toccavano il fogliame, bisbigliavano commenti e passavano oltre. Si chiedeva Benji se fosse troppo brutto, troppo esuberante o se ,forse, quegli umani non captassero il moto di fastidio che provava. A stento tratteneva la felicità. Avrebbe rivisto il mondo. Sarebbe stato nido chissà per quale specie di uccello, avrebbe sentito il vento carezzare la sua chioma. Lo impiantarono nel terreno. Non era nell’agognato Lungomare. Era ai lati di una chiesetta. Poco gli importava in quel momento. L’ euforia delle radici che si sgranchivano facendosi strada nel terreno libero era una sensazione indescrivibile. Un fremito lo aveva percorso tutto. Ebbrezza allo stato puro. Aveva proteso rami e foglie verso il cielo in un muto ringraziamento. Due giorni era durata quella meravigliosa sensazione di rinascere libero dentro la terra. Erano venuti all’alba con furgoni, betoniere, cemento, mattonelle. Lastricavano la piazza antistante la chiesetta. Osservava il tutto con uno strano senso di inquietudine. Percepiva nell’elettricità dell’aria che qualcosa stava per accadere. Era stato profetico il suo pensiero. Nel volgere di poche ore erano giunti fin sotto la sua ombra. Pochi, ripetuti gesti meccanici. Una, due, tre, cinque, cento palate di cemento. Come un naufrago che annaspa alla ricerca dell’aria sommerso dai marosi, spuntava il suo tronco in mezzo a quel grigio che imbrigliava come nebbia a soffocare il respiro. Cemento intorno a lui. Mattonelle dove prima c’era profumata terra marrone. Si sentiva umiliato, imbracato dentro una corazza , una camicia di forza a sottolineare la sua follia nel credersi libero. Aveva provato a scuotere il tronco, a graffiarli coi rami , a urlare il suo No. Ma gli umani non avevano captato il grido, percepito il dolore, avvertito il disappunto. Il colmo della sua umiliazione quando intorno al suo tronco avevano realizzato una panchina circolare sollevando il basamento in cemento fino alla meta’ del suo fusto. Un Ficus Benjiamin divenuto un complemento di arredo, un inutile appoggia schiena degli umani! Fremeva di indignazione e rabbiosa frustrazione. Le radici intorpidite per il peso che le schiacciava, come dita adunche, simili ad artigli conficcati nella terra verso il basso, metafora dell’abisso che stava provando. Prigioniero. Inchiodato alla terra, privo della sua essenza, svuotato della sua natura. Pianse. Tanto. A lungo. E chi ,seduto in quella panchina, sentiva gocciolare pensava alla rugiada del mattino, o alla brina scaldata dal sole. Eppure non voleva arrendersi al suo fato umiliante. Un anno. Due. Nutri’ le sue radici concentrando in esse passione e vita. Crebbero assieme alla sua altezza. Rabbia le attraversava. Non attutita dai nidi, dai cinguettii, dai suoi fiori e bacche che pur non ubbidendogli, nascevano. Radici forti. A imprimersi nella terra e in quegli inferi trovare la forza, l’energia per divenire possenti, scardinanti. Ardimentose propaggini a cercare e a rivendicare Libertà. Talmente potente nel suo richiamo da rompere il cemento della schiavitù. Sollevo’ Benji il basamento di cemento, sollevò la panchina come Ercole con i vitelli. Distrusse quella fortezza che gli avevano creato interno. Le sue radici uscirono al sole libere sfidando chiunque ad imbrigliarle ancora. Aveva vinto. L’amore per la sua dignità lo aveva portato a scardinare il giogo. Gli umani avevano tenuto una riunione. Quel Ficus indisponente non poteva più rimanere in quel luogo. Aveva temuto per la sua vita. Lo avrebbero bruciato. Immaginava già la sua cenere sparsa nel vento e i lapilli a correre senza briglie verso il mare. Rassegnato accettava in cuor suo quel destino preferendolo alla costrizione del cemento. Vennero a prenderlo un mattino all’alba. Si inebriava degli odori del nuovo giorno. Scuoteva i rami per svegliarsi al ritmo del sole. Lo caricarono su un grande camion. Lo portarono sul Lungomare. Era steso a guardare i suoi fratelli campeggiare solenni, ieratici, fieri, dinanzi al mare e al vicino dirimpettaio vulcano. Lo sollevarono con una gru. Le sue radici toccarono presto quelle del vicino. Aveva vinto. Al giogo perenne aveva preferito sottrarsi. Aveva vinto! Se lo ripeteva piangendo, mentre le sue radici carezzavano quella bruna terra dove la Storia dei combattenti aveva cantato. PS: questa favola nacque ieri mentre camminavo per le strade della mia città. Vidi un Ficus Bengjamin imbrigliato dentro un blocco di cemento divenuto panchina che lui aveva sollevato e divelto. Il Ficus mi ha chiesto di raccontarne la storia.