GIACOMO MATTEOTTI, 94 ANNI FA IL SUO ASSASSINIO
L’assassinio di Giacomo Matteotti, oggi 94 anni fa, storie di regime fascista, petrolio e corruzione.Tutto accadde in pochi secondi, il pomeriggio dell’assolato dieci di giugno del 1924 sul Lungotevere, a pochi passi dall’abitazione del deputato. L’onorevole Matteotti uscito di casa a piedi per raggiungere la vicina fermata del tram, fu aggredito da due uomini. L’ancor giovane e agile segretario socialista si difese con forza, riuscendo quasi a sfuggirgli di mano, ma fu sopraffatto da altri tre uomini sopraggiunti che a calci e pugni lo atterrarono, trascinandolo di peso verso una vicina automobile in sosta che partì, sparendo nel nulla della controra verso la campagna romana, con uno degli aggressori che saltava sul predellino dell’auto in corsa, lì reggendosi per poi rientrare nell’abitacolo. Altri due fuggivano a piedi, dileguandosi, mentre Matteotti si dibatteva in macchina, urlando, sfondando il vetro divisorio con un calcio e gettando fuori dall’auto la tessera da deputato del Parlamento. La descrizione dell’auto del sequestro fatta dai passanti corrispondeva a quella segnalata da un portiere che aveva rilevato il numero di targa. Il commissario Pennetta disse al suo assistente di rintracciare il proprietario dell’auto. L’ispettore Balducci accertò che l’automobile era intestata a un garage di Piazza Trevi. Lo raggiunsero svelti. Il proprietario del garage riferì che l’auto era stata noleggiata a Filippo Filippelli, direttore del Corriere italiano, giornale legato al partito fascista.Interrogato Filippelli, questi riferì di aver noleggiato l’auto per conto di Amerigo Dumini, fiorentino, ispettore viaggiante del giornale, uomo di fiducia di sua eccellenza Cesare Rossi, a sua volta uomo di fiducia del duce e capo del suo ufficio stampa. Il direttore del Corriere italiano disse che Dumini gliela aveva chiesta per far vedere Roma a certi camerati venuti dal Nord, soggiornanti con lui in un albergo del centro, il Dragoni, posto di fronte al Palazzo del governo, dove Dumini era di casa, avendo lì aperto un suo personale ufficio commerciale.Fu accertato che Dumini, la sera del dieci, era tornato con la macchina, chiedendogli il favore di nasconderla da qualche parte. Lui la fece portare nel garage privato di un suo redattore capo che interrogato riferì di aver visto l’auto sporca di sangue, con il vetro sfondato e la tappezzeria malridotta. L’auto fu rintracciata da un carrozziere di fiducia di Filippelli dove era stata portata per essere riparata. Pennetta si persuase che se rapimento c’era stato, questo non poteva che giovare al capo del governo che aveva un valido movente per liberarsi di un pericoloso oppositore politico che avrebbe potuto far crollare il regime. Quell’auto usata da uomini vicini al duce poteva esserne la prova.Raggiunto l’hotel, Pennetta apprese dal portiere che Dumini, registrato sotto falso nome come i suoi compari lombardi, s’era appena squagliato con loro, lasciando lì persino una valigia. Corsa contro il tempo, il commissario fece stampare decine di foto dei ricercati, allertando la stazione Termini, caso mai quelli decidessero di lasciare la città in treno.La stessa sera a mezzanotte, Dumini fu riconosciuto dagli agenti di guardia ai binari e fermato. Portato dal commissario responsabile della stazione, fu a questi sottratto dal gerarca Emilio De Bono, capo della polizia e comandante generale della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale fascista, prontamente arrivato con due generali della milizia che, dopo aver parlato in privato con l’indiziato ed aver preso in visione il suo bagaglio, valigia, borsa e macchina da scrivere, restituì Dumini e bagaglio al commissario della stazione il quale lo trasse in arresto e lo tradusse a Regina Coeli, prima dell’arrivo di Pennetta.Nella stessa notte, fu rintracciato e arrestato Aldo Putato, 22 anni, milanese, anch’egli assunto da Filippelli quale ispettore viaggiante del Corriere italiano, come Dumini, di cui era l’alter ego. Altri complici, già tutti identificati quali abituali picchiatori fascisti, fuggiti a Milano, furono presi uno dopo l’altro. A Lecco fu catturato Albino Volpi, già processato per l’omicidio di un operaio milanese e assolto grazie a un alibi testimoniale fornitogli da Benito Mussolini. Nello stesso giorno, fu arrestato Filippelli, mentre tentava di scappare in Francia, via mare, in motoscafo dalla Liguria. Nei giorni successivi, fu preso Otto Thierschald, austriaco, spia doppiogiochista, aveva pedinato Matteotti nei giorni precedenti il rapimento, accreditandosi persino presso i socialisti e lo stesso Matteotti, quale operaio socialista perseguitato. Furono catturati anche Giuseppe Viola, noto squadrista milanese con precedenti per rapine e diserzione, e Amleto Poveromo, 31 anni macellaio di Lecco, ex pugile, pregiudicato per furti. Riuscivano invece a espatriare in Francia, Filippo Panzeri, altro squadrista milanese, pregiudicato per reati comuni, e Augusto Malacria, 36 anni, ex capitano dell’esercito, commerciante, sotto processo per bancarotta fraudolenta e vendita di una partita di prosciutti avariati, individuato quale autista del rapimento. La signora Velia, moglie di Matteotti, affacciata alla finestra in attesa del marito che le aveva promesso un veloce ritorno, vedeva consumarsi il giorno. Passò una nottata insonne, in angoscia, nessuna telefonata, nessuna notizia, niente di niente, forse Giacomo aveva cambiato programma, per partecipare a un’imprevista riunione di partito, incontri che si protraevano fino a tarda notte, ma mai avevano fatto l’alba, o forse era stato messo sull’avviso di una possibile aggressione per il discorso alla Camera che aveva preparato sui brogli elettorali del partito fascista e altri maneggi sporchi del regime, i giornali già ne parlavano, e non era rientrato, come era accaduto altre volte, per ragioni di sicurezza. Ma oltre la denuncia dei brogli, il segretario socialista aveva altro di più pesante da denunciare. L’onorevole Matteotti, nell’articolo del cinque giugno 1924 pubblicato su “Echi e commenti”, aveva accennato ad episodi di corruzione del regime riguardanti concessioni per case da gioco e ricerca petrolifera.In un articolo pubblicato il diciannove giugno, il giornale americano Daily Herald, parlava apertamente di tangenti versate dalla Sinclair al fratello del Duce, Arnaldo Mussolini, e alla stessa casa Savoia per trenta milioni.Un articolo di Matteotti sull’affaire Sinclair per English Life, è del 16 maggio, la sua uscita era in programma per il numero di giugno, ma per altre ragioni uscirà postumo, in quello del 10 luglio. Questo il passaggio cruciale delle parole di Matteotti: “Noi siamo già a conoscenza di molte gravi irregolarità riguardanti la concessione Sinclair. Alti funzionari possono essere accusati di ignobile corruzione e del più vergognoso peculato. Ancor più disonesto è il comportamento di molti fascisti di spicco, i quali impongono pesanti tributi a imprese private e semiprivate allo scopo di finanziare giornali fascisti e altre organizzazioni per interesse e profitti personali.”Le parole non lasciavano dubbi sul loro significato. Matteotti sarebbe stato a conoscenza delle tangenti versate dalla Sinclair ai capi fascisti, ma non era chiaro se, durante il suo viaggio in Inghilterra, i laburisti inglesi, allora al governo, che probabilmente gli avevano dato l’informazione, gli avessero fornito anche le prove della corruzione del governo Mussolini. Che potessero essere stati i laburisti a mettere al corrente Matteotti, è plausibile, visto il loro doppio interesse a contrastare il monopolio petrolifero della Sinclair in Italia e a far cadere il governo Mussolini, composto da estrema destra e liberali, voluto e finanziato dagli industriali per fermare l’avanzata del movimento operaio. Queste le intuizioni del commissario di polizia Epifanio Pennetta che indagava per conto del magistrato inquirente Mauro Del Giudice al quale fu sottratto il processo dopo l’incriminazione dei capi del partito fascista “Matteotti, informato del fatto durante il suo viaggio in Inghilterra, al suo ritorno a Roma si era riproposto di sollevare uno scandalo su questa faccenda nel discorso che avrebbe fatto alla Camera, il giorno dopo il suo rapimento. La denuncia per la sua gravità avrebbe potuto far cadere il governo, e questa sarebbe stata la ragione del suo sequestro e assassinio…Ho raccolto voci negli ambienti della stampa che sostengono questo movente. Io stesso, fin dai primi giorni ebbi la sensazione che oltre i motivi di vendetta politica ve ne fossero altri di natura finanziaria, legati alla compagnia petrolifera americana Sinclair. Quando questa chiese lo sfruttamento di tutti i bacini petroliferi italiani, trovò pesanti opposizioni in Parlamento. Allora finse di accontentarsi dello sfruttamento della Sicilia e dell’Emilia, lasciando alla società rivale Saper i diritti sulle altre regioni. In verità, la Saper non era una concorrente ma una filiale mascherata della stessa Sinclair, a sua volta filiale mascherata della monopolista Standard Oil che si serviva di alcuni agenti nel ministero per spingere i propri interessi. Uno di questi era Filippo Filipelli.” (Ampi riscontri sulla pista petrolifera si trovano nei testi di Mauro Canali e Giovanni Fasanella)
