SOTTO IL CIELO DI PRATO, CONTRO CHI, DA FUORI, VUOL INSEGNARCI COME PORTARE IL CAPPELLO

SOTTO IL CIELO DI PRATO, CONTRO CHI, DA FUORI, VUOL INSEGNARCI COME PORTARE IL CAPPELLO

Sotto il cielo di Prato succedono strane cose. Accade che le persone si trovano accomunate dalla grande volontà di realizzarsi nel lavoro.Ne fanno missione di vita, di crescita sociale.Ne fanno sistema di vita un po’ guascone, becero ma concreto basato su un amore incondizionato verso la propria famiglia, verso la propria bottega che spesso impone di trovare il cammino per crescere, faticare e combattere insieme.Per più di uno diventa altare al quale immolarsi, per altri segno di prevaricazione verso chi arriva un momento dopo.Si, quel lavoro poi diventa una malattia che porta al godimento.È un qualche cosa di innato che colpisce pratesi vecchi e nuovi che li fa ritrovare sotto lo stesso cielo a combattere contro gli affanni della vita.A combattere tante infinite volte fra di loro, fino a farsi male, per poi ritrovarsi insieme, non tanto contro fiorentini e pistoiesi ma soprattutto avversi a quel che suole rappresentarli, gli uni poco inclini a darsi daffare gli altri poco disposti a godersi la vita.Si pratesi vecchi e nuovi adesso son un poco cambiati, si sono aggiornati, non stanno con le lance fuori dalle porte ma diffidano pur sempre da quanti vengon da fuori per insegnare e per venir a comandare. Ecco così che sotto il cielo di Prato, arriva l’appello contro quanti non ambiscono ad arricciarsi le maniche e tuffarsi nell’impegno anima e corpo.Proprio come aveva compreso e condiviso anche lui, quel Curzio Malaparte che sfrontato non si riguardava a dire: “Io son di Prato, m’accontento d’esser di Prato, e se non fossi nato pratese vorrei non esser venuto al mondo. E dico questo non perché son pratese, e voglia lisciar la bazza ai miei pratesi, ma perché penso che il solo difetto dei toscani sia quello di non esser tutti pratesi.S’immagini quello che sarebbero stati un Dante, un Petrarca, un Boccaccio, un Donatello, un Arnolfo, un Brunelleschi, un Michelangelo, se invece di nascere qua e là, sparsi tutt’intorno a Prato, fossero nati a Prato: e quel che sarebbero Firenze, Pistoia, Pisa, Lucca, Siena, Arezzo, Livorno, se invece di crescere sparpagliate, come sobborghi tutt’in giro alle mura di Prato, fossero state costruite proprio dentro Prato! Sarebbe stato certo un bel guadagno per tutti: perché la storia di Prato sarebbe stata la storia d’Italia, mentre ora la storia d’Italia è la storia di Prato. Non mi par giusto, perciò, che fiorentini e pistoiesi, non so se per gelosia o per prudenza, fingano di non conoscerci, e a chi domanda loro notizie dei pratesi fan le finte di non saperne nulla, di non averci mai sentiti nominare: “Prato? la mi riesce nova”, e intanto si dan nell’occhio, e cercano di sviare il discorso, parlando di quanto è bella Firenze, e di quanto è grande Pistoia: quando Firenze, per noi pratesi, non è altro che una Prato di fuor di Porta Fiorentina e Pistoia nemmeno esisterebbe se a Prato non ci fosse la Porta Pistoiese. E mi fan ridere, quanti credono di offendere i pratesi dicendo che sono il popolo più becero che sia in Toscana, anzi in Italia. Come se becero fosse un ingiuria. Un becero è un becero: cioè un toscano allo stato di grazia. E i pratesi son beceri, quando son beceri, non per il fatto che lavoran gli stracci, […], bensì per il fatto che dicono a voce alta in piazza quel che gli altri italiani tacciono o sussurrano fra quattro mura, in famiglia, e che non han paura di parlare come pensano, mentre gli altri italiani pensano come parlano, cioè biascicando i pensieri come biascicano le parole, e che non temono di “bociare” anche quando hanno torto, mentre gli altri italiani temono di vociare anche quando han ragione, e che, finalmente, son beceri ma pratesi, mentre gli altri italiani son beceri senza neppure il beneficio d’esser toscani, e pratesi.” Insomma, lo dice la storia, la nostra storia, Prato ti accoglie, ti ama e ti sfama ma non vuole affatto che da fuori qualcuno voglia insegnarle come portare il cappello