DA DUNKIRK A PAOLO VILLAGGIO: APPUNTI DAL FESTIVAL DI VENEZIA

Che cosa mi ricorderò di Venezia? Probabilmente niente. Ma per adesso: il cubo rosso, luccicante, laccato come nei ristoranti cinesi degli anni ’80, che però dà colore, col prato verde finto tutto intorno, o forse è anche vero, e insomma mille volte meglio del Buco di tutti gli anni precedenti, che quasi non mi ricordo più che cosa ci fosse prima. E il Cubo rosso fa pensare al futuro, e fa pensare che il cinema è gioco, in fondo. Non come l’architettura fascistissima del Palazzo del cinema e di quello del Casinò, che hai voglia a mascherarli. Il capo delle guardie, che ha sempre l’aria di camminare tranquillo, con il ciuffo di capelli biondi, la magrezza di chi non deve alzare un dito per affrontare il nemico. Il capo delle guardie, o dirigente della sicurezza, o non lo so; con la sua giacca grigia, che i primi anni mi sembrava disumano, e invece adesso, adesso che forse ha più di quarant’anni anche lui, mi sembra diventato più gentile, più tranquillo. O è solo che io non sono più un ragazzo da respingere nelle cose, non lo so. A me il capo delle guardie ricorda Gianni Morandi, stessa camminata, stesso ciuffo, solo che parla veneziano. Ma per sentirlo parlare ci ho messo vent’anni. La scena di “The Insult” in cui i due nemici, il palestinese e il cristiano maronita, che stanno infiammando tutto il Libano con il loro processo, si ritrovano in strada. Le loro auto affiancate. Si sono odiati, si stanno odiando, si sono picchiati, hanno lasciato che il loro scontro prendesse l’importanza e le forme di un conflitto nazionale. Sono a pochi centimetri l’uno dall’altro, entrano in auto con le portiere che quasi si sbattono. Ma sono due uomini seri, due uomini giusti, ciascuno a suo modo, soltanto incapaci di capirsi, e di perdonarsi. L’auto del maronita parte, quella del palestinese è inceppata. L’altro vede, nello specchietto retrovisore, che il palestinese non riesce a partire. Torna, gli apre il cofano, aggiusta un nulla, un contatto, chissà cosa, la macchina del palestinese parte. E lui se ne va. Non ci sono scontri di cavalieri medievali più leali di quello che ho visto in questo film. La scena di “First Reformed” in cui Amanda Seyfried, incinta, va dal prete Ethan Hawke. Prete che non solo non riesce più a vedere dio, ma neppure la salvezza per gli uomini, o per sé. Sono due anime perdute, sono due persone dalla solitudine immensa – come tutti i personaggi di quel film – e non possono avvicinarsi, non nel modo in cui possono avvicinarsi un ragazzo e una ragazza. Allora lei gli parla del gioco che faceva con suo marito: distesi, uno sull’altro, vestiti, i corpi che aderiscono. Sincronizzare il respiro, le mani, gli sguardi. E restare così. E non è amore, non è sesso, diventa qualcosa di più, l’unico modo in cui possono dirsi ti amo due persone che non hanno il permesso di amarsi. E succede qualcosa che sembra “La La Land”, ma senza la grazia, il balletto, senza la voglia di creare un mondo pastello; al contrario, come se si percepisse una forza soprannaturale che , in rarissimi casi nella vita, ci fa sentire in sintonia con l’altro, e con il mondo tutto, con l’infinito spaventoso esistere delle cose. E mi ricorderò, nel film documentario di Mario Sesti su Paolo Villaggio, il momento – solo audio – in cui Villaggio si intenerisce su se stesso, e piange al pensiero della propria morte, ma piange davvero, inizia a farlo per finta, poi si rende conto che non si può fingere, che la morte per lui c’è, e la sua disperazione è quella di un bambino a cui non vuole che venga tolto il gioco, che non vuole smettere di giocare. Solo che quel gioco, per lui, era la vita. Insomma quel pianto. Quello stare disperatamente attaccato alla vita. Quel capire che stava andando via. Che stava venendo il buio. Quella paura. Quel non riuscire a fingere, neanche con un registratore davanti. Contava di più parlare a se stesso, dire a se stesso quella paura. L’obbligo di fare il buffone, di avere una maschera, di essere spiritoso, di sedurre e fregare gli altri, con una battuta, con una finzione: tutto inutile, poteva andare tutto a farsi friggere. Sto morendo, signori, e di farmi applaudire da voi non me ne frega nulla. A me viene da piangere, perché questa mia vita sta per finire. Mi ricorderò le bombe che cadono sopra il molo con i soldati inglesi ammassati a Dunkirk, con i loro elmetti tondi che servono a niente contro le bombe lanciate dai tedeschi. Mi ricorderò il sigaro di Christoph Waltz e la sua risata angelica e diabolica, sì, d’accordo, è sempre quella, ma che eleganza, che intelligenza, come il film vola, quando c’è lui. Il film è “Downsizing”. Lui fa lo slavo, sembra la versione raffinata di Emir Kusturica, o un Malcolm McDowell rinato, beffardo e maligno, tanti anni dopo “Arancia meccanica”.