DUNKIRK: UN FILM SULL’ASSURDITA’ DEL MALE

Visto “Dunkirk”. Visto nel modo migliore, forse. All’Arsenale di Venezia, dopo una giornata da sopravvivenza pura. Niente sonno la notte, i lavori di un martello pneumatico la mattina presto, mentre cerco di addormentarmi in extremis, tutto il casamento che rimbomba e dunque anche il letto, sembra un piccolo terremoto che sembra che smetta e poi riprende, con più cattiveria di prima, senza fermarsi più, e tu non puoi ignorarlo, puoi chiudere gli occhi ma le orecchie non si chiudono così facilmente, e allora ti alzi, ubriaco di sonno, la valigia per Venezia fatta con mille ansie, togliendo tutto il possibile, perché andare in giro con un polpaccio strappato e tanti chili da trascinare non è il massimo. Soprattutto, perché te lo puoi rovinare per sempre, quel polpaccio. E allora leva, cerca di capire quanto pesano un paio di pantaloni, una camicia, un paio di scarpe, un golf, e scegliere che cosa salvare e che cosa buttare, di che cosa puoi fare a meno, e alla fine ti ritrovi con un macigno che ti fa paura, come se tu non avessi sacrificato tutto, anche le magliette, anche un paio di calzini. E poi mentre corri per prendere il treno ti dicono che devi scrivere su Mireille Darc, e tu proprio l’altro giorno ci pensavi, a quell’attrice che ha disegnato con il suo caschetto gli anni ’60, anche se non faceva parte della Nouvelle vague e neanche del Maggio francese. Ma per te era gli anni ’60, quella bellezza un po’ di plastica, un po’ da Barbie, che ti diceva che la vita era bella, e indolore. Invece scopri, mentre il treno va nella pianura Padana, che ne aveva avuti, di dolori. Quanti e più ne abbia avuti tu. O forse, è che tutte le vite sono intrise di dolori. L’infanzia con un soffio al cuore, l’adolescenza con quel viaggio a Parigi per non tornare mai più in Provenza, in provincia, e tanti filmetti da poco, commediole, gli occhietti furbi di Louis de Funès e poco altro, poi l’incontro con Alain Delon, chissà quante altre ragazze Delon si era scopato, ma con lei s’innamorò, e per lei forse Delon era il primo uomo, pensa che cosa d’altri tempi. Che forse non è vera, ma a noi piace pensarla così. E scrivi, scrivi mentre il telefono squilla di telefonate che non vuoi, mentre si avvicina l’arrivo, Rovigo, Padova, Mestre, eccoci, quella striscia di ferrovia dentro il mare, dentro la laguna, una laguna grigia, già invernale, qui a Venezia sembra non esserci mai la felicità, mai il sole che ho visto in Sicilia, o anche soltanto a Viareggio. Scendi dal treno, l’articolo non è ancora finito, ho quindici minuti di batteria del computer per finirlo, e allora eccomi alla stazione di Santa Lucia, su una panchina, a guardare a vista le valigie e a scrivere, mentre una mamma giovane, giovanissima, abbronzata, bionda, con una gonna corta, le gambe sode, gioca col suo bambino e sembra non stancarsi mai di farlo felice. Scrivi, consegna, telefona al giornale, sei stanco, cerca il vaporetto, non prendere quello sbagliato, aspetta sulla pedana che ondeggia e che hai imparato a odiare già trent’anni fa, perché ti fa venire il mal di mare e ancora neanche sei salito sull’imbarcazione, e poi via, a due chilometri all’ora, passando dietro al Canal Grande, per arrivare al Lido, anche quest’anno arrivare al Lido. Sono le sette, e l’aria grigia di prima si trasforma, sopra San Marco, in nuvole nere, mare verde scuro e nuvole nere, sembrano preparare una battaglia. E poi verso l’Arsenale nerissimo, e d’improvviso un vento forte, il caldo tropicale di poco fa si fa inverno pieno, freddo, gelido, e poi ti arriva l’acqua addosso lì sul vaporetto, da sopra e da sotto, perché le onde sono alte, e il pavimento si allaga. Venezia, mi dai il benvenuto anche quest’anno. E sull’Arsenale c’è una tempesta, sembra di vedere un vortice nero, una tromba d’aria. Chi guida il vaporetto non sembra preoccupato, ma non riusciamo ad andare avanti, e tutto il vaporetto ondeggia fortissimo. Mare forza 4, dicono. C’è di peggio, ma il vento rinforza ancora e sembra volerci sbattere in mare. Che morte stupida, prima ancora che la Mostra cominci. Scoprirò dopo, alle nove di sera, che la tromba d’aria c’è stata davvero. Però il cinema all’aperto ha resistito, l’anteprima di “Dunkirk” si farà, i miei biglietti sono validi, entriamo nell’Arsenale nord, c’è gente vestita bene, camicia bianca giacca nera, sono contento di essermela messa anch’io, a sinistra c’è un sommergibile vero, l’atmosfera è da prima internazionale, e poi finalmente lo vedo sto film.Lo dico subito: per me non vale i cinque minuti del piano sequenza su Dunkirk di “Espiazione”, un film che era a Venezia qualche anno fa. Con il suo senso di sbigottimento e di miseria infinita, di disperazione incancellabile, di stordimento dell’anima e degli occhi che quella sequenza dava. Però dico subito anche questo: è grande cinema, che ti dà subito la sensazione di che cosa vuol dire cercare di sopravvivere. E non sapere da dove verrà la morte, sapere che vivere o morire a volte è solo una questione di culo, di caso, di Destino. È grande cinema un po’ troppo pulito nei movimenti di massa, nelle cuciture degli abiti, ancora troppo poco sporco, anche quando sporco lo è programmaticamente: come nella sequenza dei naufraghi usciti dalla pozza di gasolio. Però c’è una cosa, più grande di tutte: ti fa sentire, questo film, braccato, schiacciato, insicuro. Ti senti come il protagonista adolescente del film, che scappa e cerca solo di correre svelto e di trovare un’uscita, una via di fuga, per momentanea che sia. Ma ti dice, il film, che per quanto tu ti sforzi, la morte può arrivare dall’altro, con un Dio cattivo che gioca al tiro al bersaglio con te, e che in questo caso prende la forma del nemico. “Dunkirk” parla della casualità della morte, che arriva con le bombe dei bombardieri tedeschi, con i missili dei loro U-Boot. E non puoi fare nulla per scansarla, solo dare fondo alla tua disperata vitalità. I dialoghi del film non vorrei sentirli un’altra volta, non vorrei vedere grandissimi attori sacrificati in inquadrature nelle quali poteva esserci anche uno spaventapasseri, come il povero Kenneth Branagh che guarda lontano, oltre l’orizzonte, con fare di chi la sa lunga; ma noi spettatori la sappiamo più lunga di lui. Ci avrei voluto più sangue, più fango, più sporcizia sulle divise dei soldati, sulle loro facce, e non avrei voluto movimenti tanto ordinati di comparse persino nel disperdersi in mare. Ma magari sono solo io a vedere queste cose, mentre so che molti saranno d’accordo nel vedere “Dunkirk” come un grande film sull’assurdità del male, un film che ha molto senso in questi anni di dinamite e di veicoli assassini, che portano la morte ovunque, a caso, contro gli innocenti. Ecco, i soldatini in fila sul molo di Dunkirk a farsi ammazzare somigliano molto a tutti noi, fortunati di non essere stati in quell’aeroporto, o in quella piazza, o in quella strada o in quel bus quel tale giorno.