VENEZIA 2017: IL ROCK GOTICO DI WILLIAM FRIEDKIN

Pre-inaugurazione della Mostra con un capolavoro del muto (più orchestra dal vivo) che si credeva perduto, restaurato dal Moma di New York da una copia positiva ritrovata in Russia. ÈRositadi Ernst Lubitsch, il primo film hollywoodiano del cineasta tedesco. Chiamato nel 1923 per dirigereFaustda Mary Pickford, attrice, sceneggiatrice e produttrice, Lubitsch accettò invece (a fatica) di realizzare, senza final cut, e assistito da Raoul Walsh (non parlava inglese), una commedia romantica in costume ambientata nella Siviglia carnascialesca del XVIII secolo. Lei è una sorta di Carmen, poverissima, ma adorata folk-singer anti-sistema. Verrà corteggiata e arricchita (assieme a tutta la famiglia) dal Re (noto dongiovanni, straordinario l’attore, Holbrook Blinn) che non sa come sbarazzarsi di un conte nobilissimo, innamorato veramente (George Walsh, il fratello di Raoul) che finirebbe davanti al plotone di esecuzione se non lo salvassero una Regina gelosa e il “touch Lubitsch”: ciò che trasforma la notte in luce, cioé un polpettone melodrammatico in fine satira di costume, zeppa di sapidi e buffi dettagli. Compreso qualche sberleffo a Shakespeare. Mary Pickford si sentì un po’ a disagio nel ruolo della sensuale popolana mediterranea, ben diverso da quello dell’avventurosa adolescente americana, ideale angelo della porta accanto che maneggiava abitualmente anche se ormai trentenne, e che l’aveva resa celebre nel mondo (paese dei soviet compresi, e fu proprio in occasione di un mitico viaggio tra i rossi che lei e il marito Douglas Fairbanks donarono la copia del film alla cineteca di Mosca). Forse per questo il film sparì per sempre dalla circolazione. Non ci fossero stati i comunisti… Un vero horror, non capisco perché fuori concorso, firmato William Friedkin, èThe Devil and Father Amorth, poco più di un’ora di documentario, raccontato in prima persona singolare maschile dal regista diL’esorcista, che ha avuto l’autorizzazione di filmare un vero esorcismo – non come i suoi, che erano frutto di pura fantasia – e solo con la sua telecamera, senza troupe e senza luci, da padre Gabriele Amorth, decano degli esorcisti vaticani (scomparso poi a 91 anni pochi mesi fa). Le riprese sono state effettuate a Roma il primo maggio 2016 e 45 anni dopo la famigerata testa rotante che emetteva liquame verdastro, le cose non sono molto cambiate: sacerdote e diavolo duellano ancora. L’esorcista cerca di cacciarlo questa volta dal corpo di una donna trentenne, architetto, cattolica praticante, affetta da “trance da possessione”, che urla e gesticola ritmicamente come il cantante dei Sepoltura, vantandosi di non tradire mai il Maligno e di odiare la croce, la benedizione e Cristo e tutto il resto. Il set però è molto più impressionante perché nella stanza del rito c’è l’intera famiglia della ragazza, genitori zii nonni fidanzato e cugini… Oltre alle foto di papa Woytila sul tavolo e di Papa Bergoglio in alto sulla parete. A controllare. Il montaggio c’è, però. Insomma Friedkin sceglie solo i momenti salienti delle urla e delle imprecazioni, un po’ in stile “C’era una volta Hollywood”, che prediligeva solo gli apici dei musical. Senza le parti noiose. E alla fine ti viene voglia da tifare proprio per quella parte da urlatricec che la ragazza cerca invece sinceramente, e cristianamente, di espellere da sé e che indica resistenza, creatività, ribellione. Friedkin ci dice che in Italia mezzo milione di persone all’anno cercano un esorcista. Su 60 milioni di persone. Mi sembrano un po’ pochi. Forse il cattolicesimo è in declino. Inoltre sorprende che Padre Amorth (il nome non lo avrebbe potuto inventare così macabro neanche Dario Argento), che era stato partigiano antifascista insignito di medaglia al valore prendendo i voti molto dopo, non fa che coinvolgere tra i suoi “assistenti morali” anti-Satana perfino Padre Pio. Al cui nome la ragazza si arrabbia davvero. Non mancano scienziati, psichiatri e artisti (come Bill Blatty, autore del romanzoL’esorcista) a commentare queste immagini impressionanti (oltretutto l’esorcismo non è riuscito e la ragazza continuerà a esibirsi in danze e ululati satanici perfino nella chiesa della natia Alatri, mesi dopo, mentre il fidanzato minaccia di morte Friedkin se oserà mostrare le immagini). Insomma la struttura di controllo disciplinare dei corpi da normalizzare formata da preti, scienziati e famiglia qui si vede in tutta la sua orribile potenza di fuoco. Grazie Friedkin. Nella sezione competitiva di Orizzonti una cupa produzione italo-belga,Nico, 1988terzo lungometraggio della millennial Susanna Nicchiarelli, studi in filosofia, Csc e set morettiani. All’attrice e cantante danese Trine Dyrholm (premiata a Berlino perLa comunedi Vinterberg) e che ha scritto negli occhi la noia infinita che prova nel sentire e figuriamoci rifare il gothic rock, Nicchiarelli ha assegnato la missione impossibile di travestirsi, anche vocalmente, da Christa Paffgen che al grande regista Nico Papatakis copiò il nome d’arte e la passione per una vita spericolatamente rivoluzionaria. Il film racconta però in maniera punitiva per lei e per noi (concerti-fiasco, sterotipi da rock-movies, antipatiche interviste radio…) solo gli ultimi due anni di vita e di opere (e di decadenza fisica) della bellissima ex modella e musa di Andy Warhol e dei Velvet Underground, che dal 1969 al 1979 partecipò al fianco di Philippe Garrel alla grande avventura del cinema francese sovversivo. Di questa fiammeggiante parte della sua vita, compresa la sceneggiatura del filmLa cicatrice interieure, c’è solo un acido accenno da parrocchia “ci facevano solo di lsd in quegli anni” e una battuta, sul palco, che è il titolo del film che Garrel le dedicò dopo la rottura della loro relazione: “Non sento più la chitarra”. Chi la conobbe e frequentò, invece, anche poco prima dell’incidente di bicicletta a Ibiza, durante gli anni di Manchester, e dei tour a Anzio (la parte più curiosa e viva del film, con frammenti quasi da Grifi) e a Praga con il manager Richard, cioè musicisti e giornalisti, la stimavano e adoravano sia dal punto di vista artistico che umano un po’ di più di quanto non appaia in questo ritratto che deve troppo forse ai ricordi, giustamente distorti, del figlio Ari (di Alain Delon, mai riconosciuto) che fu per lungo tempo abbandonato da Nico e affidato alla educazione dei genitori di Alain Delon. Insomma la sua vita non è stata affatto scombinata, scombinato è il modo di raccontarla, con sotto-plot che non arrivano da nessuna parte, forse a causa della cattiva qualità delle canne di oggi.