C’ERA UNA VOLTA A ROMA..LA MAFIA

Era il 2014 quando a Roma iniziò a circolare la parola mafia. Si sussurrava di inciuci e tangenti, di nomi grossi della politica romana, di criminalità organizzata. Era dalla fine degli anni 80 che nella capitale non si parlva più di crimine organizzato. Si, ovviamente c’erano i clan criminali, gente tosta, ma comunque dedita solo al crimine organizzato specializzato in rapine e traffico di droga, discendenti indiretti della Banda della Magliana, e per chi ha memoria di Roma negli anni 70, di quel Clan di Marsigliesi che faceva il bello ed il cattivo tempo in mezza Europa. Non c’è bisogno neanche di dire che esistevano anche mafia, camorra, ndrangheta e sacra corona unita, ma appunto si trattava di isole infelici, Roma era diversa. Ed invece dal 2014 tutto cambiò, o meglio, iniziò a cambiare da prima, dal 2011 per la precisione. In quell’anno infatti venne arrestato un certo Roberto Grilli, uno skipper inguaiato da una avaria del suo natante, al largo di Alghero. Infatti a bordo della barca vennero scoperti circa 500 kili di cocaina, un po troppi per spacciarli da solo, ed infatti alla fine, dopo innumerevoli interrogatori, il timoniere iniziò a raccontare di un certo Carminati, e della sua cupola segreta. I traffici, i giri di conoscenze, la droga ed anche altro, le persone usate come merce. Le indagini, grazie anche all’organigramma, definito nei minimi particolari proprio da Grilli, consente di individuare i protagonisti di questa brutta storia, ed aumentano anche i dettagli sugli affari sporchi, dai rifiuti alla accoglienza delle persone extracomunitarie all’usura agli appalti. In ogni settore c’è un santo in paradiso, in ogni apparato statale qualcuno che ha le chiavi per aprire le casse nazionali, come ad esempio Luca Odevaine, braccio destro di Veltroni quando era al Campidoglio, in grado di far aumentare i posti disponibili per le accoglienze extracomunitarie. La Procura di Roma, avvalendosi di una intercettazione del 2012, denomina l’operazione “mondo di mezzo”, così come ebbe a dire lo stesso Carminati parlando con un suo fidato “ce stanno i vivi sopra e i morti sotto, e in mezzo ce semo noi”. Quel plurale stava ad indicare lui ed i suoi accoliti, che facevano affari usando i soldi dei primi per muovere i secondi, intascando la parte maggiore di quello che lo stato sborsava. Tra gli arrestati sia personaggi che si muovevano durante la giunta Alemanno sia altri noti durante il periodo di Ignazio Marino. Politici ma non solo, a far compagnia agli eletti andarono anche il presidente della Cooperativa 29 giugno, Salvatore Buzzi, che può essere considerato il numero due della cupola, e poi Franco Panzironi, ex presidente di Ama, la società che gestisce la raccolta rifiuti a Roma nonché ex presidente della Roma Multiservizi, società che anche lo stesso Marino voleva smantellare proprio per favorire alcune cooperative. Un totale di 26 imputati per oltre 240 udienze, e tra i reati contestati in sede giudiziaria vengono annoverati anche l’estorsione e la turbativa d’asta, mentre i media tirano fuori gli scheletri di Carminati, il suo passato da terrorista di destra, componente dei Nar, in contatto, nel mondo dei vivi, anche con i servizi segreti ed esponenti delle forze dell’ordine. Nel 2015 tra gli altri venne arrestato anche Luca Gramazio, consigliere regionale del Lazio, di Forza Italia, e sempre in quell’anno iniziano i processi, decima sezione penale del Tribunale. L’interesse sociale particolarmente rilevante della vicenda, anche per la presenza di nomi di grosso calibro e quindi l’esigenza di trasparenza dettata dal timore di archiviazioni facili o altre tipologie di aiuti, unitamente alla natura delle imputazioni ed alla gravità delle fattispecie criminose, spinse ad autorizzare le riprese in aula. Nel 2017 vengono archiviate alcune posizioni, come quell dell’ex sindaco Alemanno e del Presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti, per un totale di 113 indagati. Per alcuni però restarono valide alcune contestazioni, ed a parte le due eminenze grigie, Carminati e Buzzi, furono condannati, sempre nel 207, l’ex Presidente del Consiglio Comunale di Roma, Coratti, del PD, ed ancora Luca Gramazio, Franco Panzironi e Luca Odevaine. La sentenza della Corte di Appello, dell’11 febbraio 2018, ha confermato le condanne, modificando leggermente le pene, e riconoscendo soprattutto l’accusa di associazione di stampo mafioso, termine secondo molti usato a sproposito nel caso dei fatti di Roma. Ma che sia una associazione mafiosa o meno, ciò che conta è che si è innestata su un terreno marcio alla base, alla radice. La mancanza di trasparenza, alcune politiche sociali, l’uso sistematico del sistema cooperativistico invece di favorire la creazione di imprese, hanno consentito a pochi personaggi di dettare legge in tutte le ramificazioni in cui lo Stato doveva essere sorvegliato e sorvegliante. Carminati disse, in un’altra intercettazione, che faceva più soldi con le persone che con la droga, riferendosi all’accoglienza per gli extracomunitari ed appunto alle cooperative. Questa possibilità di lucrare, per quanto possa far piacere a qualcuno definirlo stile mafioso, in realtà è la diretta derivazione della mancanza di dialogo tra le parti, tra la politica che decide e chi deve pagare per i servizi, tanto che lo stesso Odevaine dichiarò che le associazioni malavitose erano le uniche a farsi carico dei tempi lunghi dei pagamenti, ottenendo in cambio diversi benefit, non da ultimo appalti in affidamenti diretto. E forse è questo il vero mondo di mezzo, la possibilità di sfruttare la distanza tra gli apparati statali e tra le verità ideologiche, sapendo che da un lato o dall’altro, nessuno si metterà a chiedere rendiconti, per timore di apparire lento, non motivato o addirittura come il suo stesso nemico. Carminati e Buzzi infatti si muovevano su un suolo bipartisan, destra e sinistra avevano lo stesso reverente ossequio per i soldi che arrivavano dal sodalizio, dalla cupola. Di mafioso c’è il metodo, ci sono le ramificazioni, ma di italiano c’è tutto il resto, e forse dovrebbe preoccupare di più.