CINEMA, TEATRO, MUSEI. CULTURA. IL 70% DEGLI ITALIANI NON SE NE CURA

CINEMA, TEATRO, MUSEI. CULTURA. IL 70% DEGLI ITALIANI NON SE NE CURA

Sette italiani su dieci non vanno al cinema. E nemmeno al teatro, al museo o a visitare qualche sito archeologico. E in effetti basta scrollare la home page di Facebook per dedurlo senza troppa fatica, ma stavolta il dato è ufficialmente confermato da una relazione della Federculture presentata alla Camera di commercio di Milano. E senza andare a sviscerare troppo questi numeri analizzando il rapporto tra Nord e Sud Italia, o dei consumi del Belpaese rispetto all’Europa, quello che viene da chiedersi è, se non vanno al cinema, né a teatro e nemmeno a visitare musei o siti archeologici, cosa facciano nel loro tempo libero questi italiani. Il dato già di per sé, dunque, apre la strada a numerose riflessioni, e ai marketing analyst che imputano questo andamento alla diffusione delle piattaforme streaming (Netflix e simili) e dei social network, per cui la drammatica tendenza si trasforma in un banale “cambiamento di gusti”, fanno da contraltare esponenti più o meno influenti della cultura che gridano, piuttosto, alla perdita di valori, di interesse, di spessore, di una società che si fa sempre più “mordi e fuggi”, frivola e superficiale. Parlano di analfabetismo funzionale, i sociologi preoccupati, ovvero «la condizione di una persona incapace di comprendere, valutare, usare e farsi coinvolgere da testi scritti per intervenire attivamente nella società, per raggiungere i propri obiettivi e per sviluppare le proprie conoscenze e potenzialità» (definizione Unesco del 1984), una condizione sempre più diffusa nella penisola, ma in generale in tutto il mondo occidentale, dove la percentuale di persone incapaci di leggere e scrivere è ormai prossima allo zero, ma dove la diffusione dell’istruzione non ha portato a una diffusione della cultura. Anzi, verrebbe da pensare, con l’avvento della cosiddetta new economy e del fenomeno del consumismo, questa condizione ha subito una forte impennata, per poi crescere in modo esponenziale con l’avvento dell’era digitale. L’essere perennemente connessi, in contatto con qualcuno, avere una propria piazza virtuale, spinge le persone a porsi sempre meno domande e a cercare consensi attraverso foto o frasi a effetto che creano l’illusione di una conoscenza che non c’è. Ma non c’è tempo per approfondire, per andare a verificare “alla fonte” se quanto scrive tizio o caio sia reale, perché ecco che la notizia che si stava iniziando ad analizzare è subito rimpiazzata da una nuova e poi da una nuova ancora. Un sistema letteralmente impazzito dove a farla da padrone non è più la qualità, ma la quantità di informazioni e di dati che la nostra mente si trova inevitabilmente a incamerare. È l’era degli slogan, quella degli analfabeti funzionali, l’era dove le emozioni che durano nel tempo, che si formano man mano nei rapporti e mutano a seconda dei momenti per poi tramutarsi in pensieri, hanno preso il largo, lasciando posto a un’apatia che riconosce solo piccole scariche di adrenalina, lanciate a intermittenza ora dal politico di turno, ora dal giornalista, ora dal vip.Leggere, andare al cinema o a visitare siti archeologici spinge, invece, a fermarsi e provare a fare qualche riflessione in più sulla realtà e sul mondo che ci circonda. A chiedersi dove stiamo andando, che strada stiamo prendendo. Attraverso la conoscenza della nostra storia, attraverso una pellicola che racconta di dinamiche interumane, attraverso un libro che richiede la calma e il tempo per essere sfogliato. A fermarsi. A smettere di fare, per provare, una volta per tutte, a pensare.