IL MIO 11 SETTEMBRE È CAMBIATO NEL NOVEMBRE DEL 2017
(Prima era un racconto sempre uguale a sé stesso, fatto delle cose di quel giorno: io che sono assunto da qualche mese nell’azienda multinazionale dei mio piccolo paese; io che eredito dall’uso dei colleghi, con piacere, di festeggiare il compleanno con pizzette e dolci e vino; i colleghi che quel giorno vengono nel mio ufficio a mangiare e per gli auguri; la spensieratezza dei 27 anni; e poi Ivana che spunta, «Un aereo è caduto su una torre gemella»; e tutti a guardare la televisione, nella curata, lignea, dorata sala riunioni della proprietà; il sito di Repubblica che crolla per eccesso di contatti; il secondo aereo visto in diretta; io che getto le tartine e le pizzette nell’immondizia, nessuno verrà più; lo sms della mia amica Giulia, verso le 20, che mi scrive se secondo me è la fine del mondo, mentre viaggio in auto – ricordo il punto esatto in cui lessi, sul telefono cellulare grosso come una mattonella, regalo della banca locale – verso Canelli; la serata con la fidanzata in una storia finente, lei che mi regala l’opera omnia di Beppe Fenoglio nell’edizione La Pléiade Einaudi; noi che non siamo più innamorati, che finiamo la serata piangendo nei pressi del castello Gancia, il dramma di due giovani che sono assieme da cinque anni e vorrebbero tanto una cosa che non c’è più, che pure c’è stata, l’amore; e quella giornata finisce alla televisione, dal divano della casa dei miei, in cui leggo America Under Attack, parole con cui titolavano la maggior parte dei giornali e delle televisioni, e io non mi capacitavo – cioè non mi rendevo conto – che quello fosse un attacco all’America). Poi nel novembre 2017 sono stato a Ground Zero.Là dove c’erano le torri ci sono due vasche, enormi, profonde molti metri, con l’acqua a cascata, lo scroscio nel perpetuo rumore dell’acqua corrente, senza tregua, a simbolo del divenire e non dell’essere. L’essere può essere stato, quindi non essere più: il divenire invece è eterno. C’è, lungo il perimetro attorno a quei buchi, un parapetto in bronzo che è una lunga targa con i nomi incisi delle circa 3mila vittime.Lì feci una foto.In quella foto presi, per caso, due nomi.Entrammo. Il museo è sotterraneo, di cinque piani sviluppati sotto terra. Grande come tutto ciò che è americano, curato con la sensibilità europea, tutto in quel museo prende lo stomaco, annebbia e rabbuia, stordisce come una canna con fumo pessimo o una ciucca triste, e costringe a fare i conti con quello che pensavi di essere l’11 settembre 2001 e, in fondo, a ripensare tutta la tua vita prima e dopo allora.Le voci delle chiamate al 911.Le tute della polizia strappate.Le biciclette cosparse dei calcinacci.Gli automezzi dei vigili del fuoco ridotti a pezzi di ferro, come risultato di una demolizione.L’acciaio delle fondamenta delle torri, che saranno – le fondamenta, tutto – sempre più grandi di quanto, lontani da Ground Zero dove siete ora, immaginate.E poi l’interazione, i video touchscreen, scorri i nomi delle vittime, clicchi e conosci la loro storia.Ci sono i messaggi registrati dei famigliari.I video mentre fanno le cose comuni, la grigliata all’ultimo compleanno della figlia.C’è la foto del diploma di laurea.Del matrimonio.Della gita al lago con la cugina.Olga dovette venire a prendermi: «Che fai ancora lì?»Non mi staccavo.Le chiesi di avvicinarsi, le feci vedere prima il cellulare, poi indicai un nome sullo schermo. Robert J. Foti aveva 42 anni, una moglie, tre figli e faceva il pompiere. I pompieri andavano controcorrente, inseguivano persone ancora in vita mentre ombre polverose fuggivano lontano dalle torri. Salivano, quando tutti scendevano. Venne giù tutto, e loro erano lì. Entravo nella vita di Robert Joseph leggendo dei figli, cercavo su Facebook Alycia, che adesso ha trent’anni e pubblica le foto della laurea, fugato il dubbio dell’omonimia per una mano con le unghie pittate di scuro, su quel nome che rimase nella mia foto, sul parapetto. I segni servono a questo, a entrare nelle storie con più profondità. La sicilianità indubbia di quell’origine, Foti, contribuiva a sentire un significato ancor più forte, oltre alla casualità.Si può dire bella, un’esperienza così? Bella siccome la consiglierei, in quell’accezione? Può un pomeriggio perturbante voler esser ripetuto all’ossessività? Qualche giorno fa è stato diffuso un video inedito. Inedito nel senso letterale: mai edito, materiale di un operatore BBC che quel giorno vagava per il caos, recuperato, ristrutturato. Ha cambiato la mia prospettiva aver camminato per quegli isolati?È come se quei metri fossero diventati miei e l’attentato fosse accaduto nei metri del mio quotidiano, nei metri di Torino o di qualunque posto del mondo dove sia passato; è come se nel ricordo di quel giorno non potessi adesso lasciar fuori le tute strappate e le auto accartocciate, la polvere e i calcinacci, il cielo nero, come fosse impossibile ora non aggiungere al mio personale il dramma di Alycia Foti, alle pizzette, al mio libro di Fenoglio, al castello di Canelli l’angoscia di Alycia tredicenne di Alberston, New York, che bramava notizie del padre schiacciato dal cemento – tutto questo è ora sovrapposto alle tartine del pomeriggio e al pianto per il mio amore morente nelle Langhe. Non sono più *io*, non è più un generico, indistinto *loro*, là; è una specie di noi, pur con il pudore di chi s’affaccia alla tragedia rimanendone oggettivamente, negli affetti e nel corpo, intatto. Posso? Rimane il mio compleanno, e la cosa, come fosse una segnatura, fondamentalmente piace. È sempre stata un segno di attenzione supplementare, giacché più persone lo ricordano e più persone ti pensano – questo anche prima dell’era social. Però quest’anno è diverso, diciamo che si è aperta una feritoia, un pertugio per l’incursione nelle storie sia di quelli che ricordano dov’erano nelle ore in cui il mondo gettò l’attenzione in un isolato di Manhattan, sia di quelli che sono stati rovinati, hanno avuto la vita segnata in maniera diretta, guardo a loro con una sensibilità nuova.
