ISABELLA, STORIA DI UNA PASSIONE

ISABELLA, STORIA DI UNA PASSIONE

Isabella cantava e tesseva. Vicino alla finestra, al sole, manovrava il telaio e la coperta cresceva.“Che meraviglia!” – aveva esclamato la serva Melina quando era entrata nella stanza con la biancheria pulita da sistemare.Isabella sudava appena. Le piaceva assaporare con le labbra il suo liquido lieve; l’aria profumata e quel gusto intimo la eccitavano, le riempivano il respiro e il sangue. La camicia le aderiva umida sulla pelle. Con il polso si accarezzava la fronte per asciugarsi le sopracciglia e scostare i capelli chiari sfuggiti alle forcine. E cantava:“Lu zit mio è ggiut a l’Americ’ e non vole cchiù turna’…”.La sua voce usciva dalla finestra e si spandeva leggera nel cortile, nella luce del sole.Isabella di Bella.Garofalo il garzone sentiva quella voce e s’ammattiva d’amore. Era arrivato a quella masseria e il padrone Vito gli aveva fatto un ragionamento. Doveva guardare tutte le bestie, le vacche, i porci e le galline, e sarebbe stato ben trattato. Da tre anni lavorava lì e don Vito era contento di lui. Garofalo era diventato importante nella masseria: ormai per tutte le cose andavano a chiedere consiglio a lui.Qualche volta s’era portato dietro Camillo, il figlio del padrone, un bel giovane della sua stessa età. Andavano a cavallo con i cani a recuperare gli animali che si perdevano, si divertivano a correre tra le colline, a nascondersi per poi farsi ritrovare dai cani.E però il garzone Garofalo si disperava.Anche Melina se n’era accorta e gli aveva chiesto: “Garo’, ma che tieni?”.Ma lui non aveva risposto, aveva sospirato profondo e aveva continuato a preparare il pastone per i porci.Si struggeva per Isabella. Era una passione così intensa, che non dormiva la notte. E la mattina, quando finalmente riusciva ad allontanarla dai pensieri, aveva troppa voglia di vederla, la sua padrona giovane, per restarsene coricato. E poi anche le vacche si lamentavano, piene a dolenti. Allora, mezzo addormentato, andava a mungerle. Beveva il latte, mangiava una fetta di pane, un pomodoro e si svegliava, ricominciando a struggersi.Quando la vedeva alla finestra al sole, con quelle mosse e quelle grazie, non resisteva proprio: doveva correre a nascondersi nella stalla. A volte costringeva le galline a venirgli dietro, sotto quella finestra, e solo allora sventagliava il pane vecchio. Le prime uova, il primo latte erano per la padrona giovane, che però non lo parlava mai, lo sfuggiva sempre.Non ne poteva più. Una mattina Garofalo, dopo aver munto le vacche ed essersi lavato la faccia, era andato da don Vito:“Vi chiedo a Isabella, me la voglio sponsa’” – aveva detto con decisione, dritto in faccia al padrone.Don Vito non aveva risposto, ma si vedeva che s’era scurito. Lo guardava storto e con gli occhi piccoli:“Va a vedere che fanno i porci!” – erano state le sue parole fischianti.Nel pomeriggio che sembrava infiammato, tanto il sole aveva arroventato tutto, don Vito aveva fatto chiamare il garzone:“Non ti posso più tenere, Garo’ – gli aveva detto – non posso compromettere a Isabella, e se non te ne vai, quella, la mia figliola, può finire male”.A quelle parole Garofalo si era sentito di morire, gli era venuta una febbre improvvisa, sudava e tremava per un freddo che teneva dentro. Non si sentiva neanche di camminare, e invece se ne doveva andare, abbandonare quegli odori, quei colori, le bestie, la masseria. Non avrebbe più potuto vedere Isabella, Isabella alla finestra che cantava.Quella notte, nel suo letto di paglia, pensava e si disperava. C’era stato bene alla masseria, don Vito gli aveva voluto bene, tutti gli volevano bene. Ma non poteva sposare la figlia del padrone, lui, un garzone, un porcaro. La sua testa era come un campo di combattimento: i sentimenti di gratitudine e d’amore si scontravano con una rabbia che gli spezzava il cuore. Si sentiva come bastonato, e piano piano gli usciva il rancore, la promessa di vendetta.Barcollando e inciampando malamente, s’era alzato che era ancora scuro. S’era preso un fiasco di vino dalla cucina, aveva poi sellato Sorchiapome, il cavallo del padrone, e se n’era scappato.Aveva cavalcato tutta la notte e pure la mattina. Sulle alture di Ripacandida aveva trovato il suo amico Stinnicchio il pastore. Gli aveva raccontato tutto, anche del cavallo rubato. Stinnicchio gli consigliò allora di raggiungere Antonino Melograno e la sua banda nei boschi di Forenza, dove avrebbe trovato comprensione e protezione. Garofalo capiva che quel consiglio era definitivo. Ma in quel momento i suoi pensieri erano quelli di un animale ferito e l’istinto lo spingeva ad andare. Un solo ragionamento l’attraversava, quello di danneggiare don Vito.Un pezzo di pane, un po’ di formaggio e già Sorchiapome galoppava verso i boschi di Forenza.L’incontro con la banda di Antonino Melograno l’aveva impaurito, tra tutte quelle facce scure. Abituato alle colline assolate, quel posto così selvatico gli metteva un gran freddo addosso. L’avevano tenuto tutta la notte legato a una quercia ma gli avevano offerto un bicchiere di vino. Non credevano alla sua storia e poi dicevano che Stinnicchio non lo conoscevano proprio.Così, anche quella notte non aveva dormito, sebbene la febbre non la sentisse quasi più: tutta quella cavalcata l’aveva fatta sbollire.Garofalo aveva chiamato l’uomo che faceva la guardia, Giovanni detto Vernicocca:“Perché stai qui?” – gli aveva chiesto.“Il padrone, a Leonessa, ci ha pigliati che rubavamo l’olio – aveva risposta Vernicocca – a Lorenzuccio gli ha tagliato la mano, io invece me ne sono scappato”.Faceva appena giorno e già si sentiva che sarebbe stata una giornata bruciante. Garofalo aveva deciso di restare lì, non più garzone ma brigante, insieme a Vernicocca e al suo risentimento, che poi era come quello che gli inacidiva dentro.Nei boschi di Forenza era una vita selvaggia, di giorno e di notte, una vita che temeva la mancanza del pane e che bisognava vivere con l’orso, la vipera e il lupo. La sera Garofalo cantava la canzone triste di Isabella e dopo qualche tempo tutta la banda la cantava insieme a lui.Ogni tanto arrivavano le donne con i veli neri: le mandavano i contadini per non farsi arrubare. Portavano mezzo porco, una botte di vino, un sacco di farina, cesti di patate,Garofalo aveva già avuto il suo battesimo di guerra, aveva partecipato a due spedizioni, con il fucile e le lame. E anche se aveva avuto paura, non se ne lamentava, il rancore lo sosteneva, lo consolava. S’era ormai convinto che rubare ai proprietari, ai latifondisti era un fatto giusto, quasi un diritto dei poveri e dei ladri.Una mattina erano stati assaltati dalle guardie piemontesi, dietro il faggeto più fitto, dove stava l’accampamente. E anche se erano riusciti a ritirarsi risalendo le strade di roccia, uno di loro era stato ucciso.Garofalo era andato allora da Antonino Melograno in persona e gli aveva detto:“Qua tira brutt’aria, jamscenn verso Muro”.“No – aveva tuonato il capo – amascì ‘ndo Crocc!”.A sentire quel nome, Garofalo s’era fermato tutto, spaventato e con i brividi dentro.“Va bbuon – aveva comunque risposto – ma dopp aggia scì a murtifica’ don Vito, quell’infamon’…”.E così era stato. Dopo qualche settimana passata tra Atella e Lagopesole con l’esercito di Carmine Crocco, dopo che anche lì aveva cantato la canzone di Isabella, Garofalo si preparava ad andarsene verso le montagne sopra Muro e Bella. Con lui, una decina di garzoni come lui, tra cui anche Vernicocca e anche l’ultimo arrivato Stinnicchio il pastore. L’estate tornava, tutto gli sembrava come un anno prima giù alla piana, con Isabella che cantava e tesseva.I lavoranti di don Vito avevano mietuto da qualche giorno, le spighe era state tutte raccolte per la trebbiatura. Ma Garofalo una notte aveva bruciato tutto. Sorchiapome l’aveva riportato sui territori conosciuti e lui aveva infierito su quei mucchi d’oro. Finalmente era tornato su quella terra, finalmente poteva rovinarla.Era andato a prendere nel letto Alfredo, il caporale di don Vito che conosceva bene, e gli aveva detto con una voce infiammata: “Riferisci a don Vito che Garofalo è tornato per pigliarsi a Isabella!”.La sua voce strillante, il fuoco, il vento caldo nel respiro, le facce accese, gli spari inutili: la prima mortificazione che il garzone portava al suo ingrato padrone.E poi le altre distruzioni. Gli animali ammazzati, gli ulivi bruciati, le vigne spiantate, due faticanti feriti a mazzate e fucilate.La serva Melina si disperava perché l’amore suo rovinava la terra, perché l’uomo che voleva più di tutto era tornato col fuoco e pieno di veleno.E Isabella non cantava più.E don Vito aveva chiamato le guardie piemontesiUna notte il giovane Camillo era partito con la carrozza portandosi dietro Isabella, che s’era messa gli stivaletti di città. I cavalli nel buio caldo dell’estate sputavano e correvano; la paura dei morti uccisi li spronava. Poi Isabella era stata accompagnata ancora più lontano, fino a Napoli.Invece Garofalo e gli altri garzoni prendevano un’altra strada. Sorchiapome scappava verso Atella, per raggiungere l’accampamento di Crocco. Ma era arrivata prima la morte. Tra le vigne di Rionero erano stati circondati dalla fanteria, un intero battaglione della brigata Pisa. Avevano resistito un giorno intero, sparando e morendo. Uno solo si era arreso. Ma le guardie piemontesi l’avevano fucilato.Don Vito aveva fatto piantare un palo al centro della masseria. Sulla cima del palo la testa di Garofalo sembrava guardasse le galline; il garzone era tornato ma le mosche gli mangiavano gli occhi. Alla mattina dopo il palo era stato trovato per terra, spiantato e abbattuto. E lì accanto, accovacciata per terra, Melina non piangeva più: muta e abbandonata, accarezzava quelle guance morte.