L’ATROCE MORALE DELLA RIVOLTA DEI GILET GIALLI: LA VIOLENZA PAGA

L’ATROCE MORALE DELLA RIVOLTA DEI GILET GIALLI: LA VIOLENZA PAGA

Mai, in anni passati, si era assistita a una simile capitolazione davanti a piazze turbolenteche si esprimevano – anche – bruciando auto e autobus e vandalizzando le città. Anzi, in genere proprio la deriva violenta aveva generato l’irrigidimento dei governi, il “no pasaran” istituzionale, tanto chein anni passati(ma non troppo lontani)interi movimenti sono stati schiacciati per non aver saputo o voluto isolare le frange dell’illegalità: la questione Black Bloc, per chi se la ricorda, determinò nei primi anni Duemila, da Genova in poi, la chiusura di spazi democratici ovunque, l’applicazione di leggi emergenziali, il divieto di sfilare nelle capitali, per qualsiasi motivo, fino a quando l’incendio non fu spento e quel tipo di fermento definitivamente domato. Adesso, dalla Francia, arriva un segnale contrario.Pare brutto riassumerlo nella frase “la violenza paga”, ma oggettivamente è così.Le offerte dell’esecutivo ai dimostranti sono andate addirittura oltre le loro richieste: un nuovo compromesso nazionale del valore di dieci miliardi di euro, che spazia dall’aumento del salario minimo all’annullo del contributo sociale sulle pensioni inferiori ai 2.000 euro. Per di più con la solennità di un discorso televisivo a reti unificate, che ha sancito – oltre agli indubbi risultati pratici – anche una sorta di vittoria morale delle piazze sul giovane sovrano, che capitola ed è costretto a fare autocritica pubblica riconoscendo“la rabbia giusta” dei suoi avversari. Oltre ogni considerazione moralistica,il ribaltamento del paradigma della violenza è l’ennesima conferma della fragilità politica di larga parte delle nuove classi dirigenti, incapaci di capire i segnali di disagio sociale fino a quando non arrivano alle proporzioni di una rivolta, rendendo obbligatorio alzare bandiera bianca. Un mix di autoritarismo e paternalismo guidò le generazioni precedenti a una tutela più oculata del proprio potere, persino quando le rivoluzioni sembravano alle porte e la resa inevitabile. Oggi non succede.E l’alibi dei soldi che mancano sembra piuttosto fragile: i Gilet Jaune si sono ribellati per una misura sui carburanti e la rottamazione del vecchio parco auto che poteva essere rinviata a tempi migliori senza danno e senza costi. Piuttosto, il corto circuito sembra avere a che fare con unprogressivo sdoganamento di forme ribelliste, anche nelle istituzioni, da parte di soggetti che dovrebbero placare le folle anziché eccitarle: da anni vediamo sindaci e persino ministri guidare picchetti di cittadini, esibirsi davanti a barricate, usare toni da crociata contro gli avversari e talvolta gli alleati, contro Paesi ritenuti poco amici, contro il potere giudiziario, contro i giornali. Succede in Francia come da noi. Edè abbastanza ovvio pensare che, una volta “normalizzati” questi comportamenti, chi non ha a disposizione i media per protestare e intimidire decida di prendersi i riflettori spaccando vetrine. L’esito(anzi il non-esito: l’offerta di pace dell’Eliseo al momento è stata rifiutata)dell’insurrezione francese, incapace di fermarsi persino davanti a nuovi lutti del terrorismo, è una cattiva notizia soprattutto per questo.Ci riporta ai primordi più rozzi della democrazia, quando l’azione violenta per raggiungere un obbiettivo costituiva un’opzione come un’altra, da valutare solo in base alla sua praticabilità e possibilità di successo. Le scene di Parigi resteranno, in questo senso, uno spartiacque:“prima” non era immaginabile piegare un governo dopo aver devastato la sua capitale, adesso sì.