LE LANGHE, UN LIBRO, IL TAVOLO DELL’AMICIZIA
Questo lungo ponte l’ho passato nelle Langhe, in esilio volontario nella stanza di un agriturismo, se pur abbia la fortuna di avere, nelle Langhe, amici e parenti che mi ospiterebbero.– Volevi stare un po’ da solo con te stesso – mi ha detto una giovane donna del Tavolo dell’Amicizia, e io ho detto di sì.– Hai fatto bene – ha aggiunto – anch’io prima o poi mi prendo del tempo per me – e attorno le hanno chiesto se andrà in Calabria, a prendersi il tempo per sé, e lei ha risposto che in Calabria sono dieci anni che non ci va.In realtà non ho avuto bisogno di tempo per me, ho avuto bisogno di scendere nelle Langhe per scrivere – imbastire – un romanzo sulle Langhe, risuonandomi in testa, absit iniuria verbis, le parole di Fenoglio che si chiedeva se un romanzo su Alba si scrivesse meglio in Alba o lontano da Alba.Il tema, però, di questo post, è il Tavolo dell’Amicizia.Chiuso in questa stanza, mi muovevo soltanto per i pasti nella taverna del paese, dove sono stato sistemato, appena ho chiesto una specie di convenzione – oh questo impulso cittadino, amministrativo, chiedere la *convenzione* – e la proprietaria mi ha soltanto fatto cenno: Là!Ovvero a un tavolo di sei, sette, otto commensali, variabili, insomma il raduno delle anime perse, erranti per le Langhe Inquiete.Lei, la giovane donna, che viene a pranzo con il marito, stanca per il lavoro – fa di lavoro le pulizie.Il marito – un tipo taciturno, con gli occhi azzurrissimi e la coda imbiancata che, se parla, parla in dialetto.Il dialetto – la lingua che a un certo punto ho smesso, qui, di parlare, perché avrei dato modo di farmi troppe domande, e non avevo voglia di rispondere.B., uno che è in pensione da quando aveva cinquantacinque anni, un immenso esperto di come si coltivano e si mettono sott’olio i peperoncini, e per infiniti minuti racconta i giorni – tre – che occorrono a preparare vasetti «come si deve».P., uno che di mestiere fa il trattorista di una cantina, e però dice che il vino più buono lo fa un’altra, e invita tutti a comperarlo in quell’altra.A., una nonna che «porta ancora la macchina», come si dice qui, portare la macchina nel senso di guidare, e porta, sulla macchina, il marito, uno uomo molto vecchio e sordo, che pranza accanto a me e versa vino come se fosse una medicina per la sordità, o forse soltanto un antidoto per la vecchiaia.Loro sono gli abituali, che accolgono personaggi che arrivano un giorno come un temporale e poi mai più. Me. O un tipo che diceva di essere di La Morra, e però un altro, quando il tipo se ne è andato, ha detto che in trent’anni a La Morra quel tipo non l’ha mai visto.Mi chiedevano di me, avendomi ascoltato il dialetto.Volevano sapere chi sono, chi soprattutto erano i miei, i miei nonni, troppo del posto il dialetto e non di quindici chilometri più in là. Che sia di Torino, che abbia concesso il mio quartiere – entrando poi, il mio quartiere, nei loro vissuti, chi aveva accompagnato un parente a morire alle Molinette, chi aveva zia in via Berthollet, chi aveva portando l’olio per anni bazzicato spesso in via Nizza, un ristorante essendo loro cliente affezionato.Io non volevo dirlo. Un po’ giocavo con il loro istinto a conoscere, un po’ li ascoltavo. Volevo ascoltare, non parlare. Volevo chiedere come è vivere nelle Langhe oggi, quanto è diverso da quando ci vivevo io vent’anni fa. Cercavo tracce di politica, non ne ho trovata. Loro avrebbero saputo chi erano i miei o mio nonno e io non volevo. Nulla di personale: ma per una volta non volevo essere qualcuno in dipendenza da chi era stato e non è più.Ho letto i fatti di cronaca prima nelle parole e nei passaparola di chi arrivava, sedeva, diceva di questa o di quella cosa, che sul giornale aveva una dimensione soltanto doppia, sicuramente minoritaria e inferiore, in portanza, di quello che veniva detto al tavolo. C’era sempre una testimonianza che valeva di più, nelle parole di chi parlava.Dovessi usare infine un’immagine, direi il bonet che ho mangiato poco fa, congedandomi. Un bonet – si scrive così, si legge bunèt, con la u e con la t, è piemontese, non francese: si legge ogni lettera, la o come una u – sincero, quello cioè che faceva mia nonna. La fedeltà a certi luoghi, come a una ricetta, quella è la sincerità. Ho visto un film, un documentario: Langhe inquiete. La videocamera per cinque giorni a questo tavolo, le parole, le battute, quello che cinque o sei o sette persone condividono – Non ce l’hanno una moglie, questi uomini? Perché pranzare, se pur a prezzi popolari, all’osteria e non a casa? Perché al ristorante, nonna Anna dalle mani nodose, contadinesche? – la medesima videocamera in giro per le Langhe degli agriturismi – «Non c’è abbastanza da dormire, la gente si fermerebbe di più, ci fosse più da dormire», mi diceva P. – e del turismo, dei negozi che vendono il vino, dell’impronta neomuseale di certi paesi, Barolo o Barbaresco, la contrapposizione con la Langa rimasta, quieta, a un Tavolo dell’Amicizia, in una trattoria, un giorno di nebbia, un pasto completo a dieci euro.
