LEGGI RAZZIALI. IL DOLORE DI UN UOMO

LEGGI RAZZIALI. IL DOLORE DI UN UOMO

Ottanta anni fa, nel silenzio e nell’indifferenza generale, il regime fascista cacciò gli studenti ebrei dalle scuole italiane.Era il settembre del ’38, la guerra non c’era ancora, l’antisemitismo dilagò creando le condizioni per arrivare poi allo sterminio finale, alla Shoah.Chi firmò quelle leggi? Il governo fascista, Mussolini, i suoi gerarchi anche più illuminati come Bottai.E l’Italia? Tacque, complice e disponibile. Riporto qui di seguito le pagine dedicate da mio suocero Paolo Padovani alla sua “cacciata” dal liceo Piccolomini di Siena. Provengono dai suoi diari inediti: Pensieri, dopo 50 anni, sull’espulsione dal primo Liceo per le leggi razziali fasciste. Tutto è stato dimenticato, attenuato, nascosto dietro l’orrore del genocidio nazista e dietro i forni crematori. Invece anche chi non è stato distrutto ed è sfuggito, per puro caso, alle razzie naziste e fasciste, ha conservato e aumentato la memoria delle persecuzione che ha poi determinato tutto il suo destino e la sua diversità nel dolore e nella coscienza dell’assurdo. Quel che è certo è che è andato crescendo il senso dell’infame esclusione dalla scuola e dalla società per oltre otto anni, oltre al rifiuto di accettare “la ragione” dell’ antisemitismo e la bestialità del fascismo, italiano e tedesco.Oggi mi sembra impossibile fare finta che nulla sia accaduto e che l’essere sfuggito al genocidio, per puro caso, debba essere dimenticato e tenuto nell’ombra di una tardiva retorica riparatrice. Perché il silenzio e il dolore personale tenuto nel sottofondo dell’anima non aiuteranno a denunciare le infamie di altri eccidi simili. Invece bisogna far conoscere la storia vera degli uomini e i crimini senza ragione contro innocenti o diversi. Bisogna far conoscere le ipocrisie dei benpensanti, le ambiguità del Vaticano, le colpe degli industriali italiani che hanno collaborato con i fascisti e i nazisti (salvo nel privato in qualche caso rammaricarsi delle persecuzioni antiebraiche, dicendosi “amici” di questo o di quello, in fuga o nei campi di sterminio).Dopo cinquant’anni di dolore e di senso paralizzante dell’ingiustizia e della sopraffazione mi ripeto che non è giusto che nessun amico (salvo espressioni occasionali e puramente verbali) si sia fatto il problema dell’essere gettati fuori dalla società, dalla scuola e dal diritto di tutti a una vita normale per la “razza” e per la “religione” diversa.Ho molto sofferto, nel tempo, per questa incomprensione e per l’indifferenza nei confronti di gente, per fare solo un esempio, come mio padre, generale dell’esercito e compagno (!) del re alla Nunziatella, uomo di grande onestà, bravura ed impegno civile, gettato nella miseria e non difeso dalla barbarie dei gerarchi fascisti e nazisti. E ancor più ho sofferto vedendo gli amici all’Università che io non potevo frequentare e che non si ponevano, con delle eccezioni, il problema del nostro degrado e della nostra espulsione dallo studio, dalla vita civile, dalla stessa patria con l’angoscia continua delle razzie, delle torture e della morte nelle camere a gas di Buchenwald come della Risiera di Trieste.Nessuno mi ha mai chiesto del dolore di mia madre che, paralizzata, non poteva essere aiutata da gente ariana e che ci guardava con i suoi bellissimi occhi neri, i suoi giovani figli di 16 e 18 anni, buttati fuori dalla vita e dalle speranze e dai diritti di tutti. L’infamia delle persecuzioni razziali, specie in Italia dove gli ebrei erano del tutto assimilati da secoli, non è quindi solo nella violenza criminale e nella rapina dei potenti fascisti e nazisti, ma nell’aver permesso il più infame degli insulti a uomini moderni, civili, coscienti. Soprattutto di aver distrutto per sempre la loro fiducia e di aver deviato per sempre, ripeto, il loro destino. I professori, il preside del Liceo di Siena, quando fui buttato fuori nel 1938, non mi hanno mai avvicinato per dirmi una parola di solidarietà e di amicizia, di elementare comprensione umana. Ed io ero uno degli allievi più quotati del Liceo e mio padre era un generale e un cittadino di specchiata carriera, in pace come in guerra. Ricordo, e provo vergogna per questo silenzio che allora mi ferì a morte e mi fece capire, per sempre, che l’infamia e l’indifferenza dominano la vita della società di tutti i tempi.