RACCONTI DI NATALE, SECONDA PARTE

RACCONTI DI NATALE, SECONDA PARTE

Mi hanno dato un’ostia. Anche a me. E adesso, per un attimo, mi sento parte di quella comunità. Di questa gente, di questa umanità che è qui un po’ per caso, perché sono turisti e passavano di qui, e qualcuno forse perché ci crede, perché levagli anche quello e poi che cosa gli resta. Che cosa resta alla signora grassa e sfiorita che ho visto prima, e a quei due vecchi, lui col berretto di lana e la barba rasposa, lei che cammina a passettini. Che cosa gli resta. Per caso, sono rientrato – o forse credo di esserlo – nella città immaginaria di quelli che hanno fatto la comunione. Del resto, è tutta la vita che cerco di comunicare. Di mettere in comune le parole, il sentire di un momento, le emozioni. Comunicare, ecco quello che ho cercato di fare tutta la vita. Tra comunione e comunicazione ci sono solo due lettere di differenza. E forse, facendo la comunione, nei primi secoli dopo Cristo, quelli delle catacombe si contavano: capivano di essere un gruppo, di essere insieme. E capivano che il segreto di questa nuova religione era promettere di essere parte di un tutto, un tutto del quale facevano parte loro, gli uomini, le piante, gli animali, le stelle, tutte le cose che esistono e che non smetteranno mai di esistere, e dentro questo brulicare di esistere anche noi saremo per sempre, e non dobbiamo aver paura, mai più. Questo, forse, è il nocciolo della religione nata dalla vita, e dalla morte, di quell’uomo. Che aveva una grande parlantina, e l’aria da rockstar, in una terra che per paesaggio e clima, e piante, assomigliava alla Toscana. E in un tempo in cui gli uomini assomigliavano a quello che sono oggi: ipocriti, attaccati al denaro e al potere, pronti a lavarsene le mani, a mettere in croce quello che metteva troppo fuori la testa, e a dimenticare chi avevano amato fino a una settimana prima. E mentre la gente se ne va via, emorragia di gente via dalla chiesa, penso a quanto è bello quel coro che continua a cantare. Penso al prete cingalese o africano che chissà perché si è fatto prete, magari non proprio per convinzione; chissà che storie hanno i preti. Un coro meraviglioso sta cantando non so che cosa. Sono ignorante di musica sacra. La gente sta facendo la comunione, in mezzo alla navata. Mi chiedo quanto tempo è che non la faccio. Quando ero bambino ci credevo, con tutto me stesso. A tredici anni ho pregato per mesi, senza dirlo a nessuno, che il padre del mio amico Stefano non morisse di tumore. A Stefano era già morta la madre, di tumore. La chiesa era molto bella, molto moderna: sembrava una Tour Eiffel puntata verso l’alto. Dio forse era contento degli architetti di quella chiesa, di come vedevano il futuro. Quella chiesa era sempre vuota. Entravo, pregavo. Ma Dio non ascoltò, e io cominciai a credere un po’ meno a tutto. Stefano portava le Adidas Rome, quelle con le tre strisce blu. Quando stavano per finire, ne comprava un altro paio uguali. “Ma come uguali?”. “Sì, mi vanno bene, le compro uguali”. E io pensai che non voleva vedere le cose finire. Le persone le aveva già viste andar via. A otto, nove anni andavo alla chiesa dei Cappuccini, bambino. C’erano due frati giovani, Artemio e Flavio. Mi sembrava avessero capito molto del mondo, dell’anima dei ragazzi, del futuro, della rivoluzione nei rapporti fra gli esseri umani che c’era nell’aria. Era l’inizio degli anni ’70, l’inizio della mia vita, era il futuro che si respirava a pieni polmoni. Loro spiegavano, sorridevano, erano attenti a noi, avevano entusiasmo. Non mi accorgo che sono arrivate due persone davanti a me: due preti. Uno è cingalese, o forse africano. Quello accanto è italiano. Mi dice “vuole fare la comunione?”, con la velocità con cui nei Frecciarossa offrono lo snack: “dolce o salato?”. Sto appena realizzando la cosa enorme che mi ha chiesto. Credere di diventare tutt’uno col dio. Crederci. Di nuovo. Lui, un po’ seccato, mi dice “oh! Se vuole, eh!”. Come dire: “se la un gli scomoda…”. Ma penso che rifiutare dio che è arrivato a dieci centimetri da me, sia pure tramite un suo impiegato infastidito, mi sembrerebbe sprezzante. Così non dico nulla, abbasso la testa, apro la bocca. Come quarant’anni fa. Giovanni Bogani12 h ·5. La cattedrale di Facebook La Cattedrale di Firenze è un enorme stadio, e in fondo c’è il palco del concerto. Il prete, in questo momento, dice di scambiarsi il segno della pace. Ma sono appena arrivato. Vengo da un altro pianeta. Non so con chi scambiare un segno di pace. Non so chi mi stringerebbe la mano. Cammino piano. In mezzo alla navata c’è un presepe. Non particolarmente bello, né suggestivo. Sembra messo lì per dovere. Senza la voglia di fare qualcosa di bello, di importante. Hanno avuto più coraggio in piazza Signora, a mettere in mezzo alla piazza quella scultura di Urs Fischer: “Big Clay”, grande argilla. Per me, il Monumento alla Merda. Molti, dentro la chiesa, sono stranieri. Due ragazze belle: una ha i capelli neri. Mentre parla, con la testa ha continui gesti come per dire di no, come se stare lì le costasse un immenso sacrificio. Una giapponese cammina con le gambe storte. Molti se ne stanno già andando. Come allo stadio, quando la partita non ha più nulla da dire. Il prete sta dicendo che chi vuole ricevere la comunione non deve muoversi: verranno dei “ministri” in ogni area della chiesa. Comunione a domicilio. Si sono già formate due enormi file: una davanti, una in mezzo alla chiesa. Guardo in alto, lo slancio delle colonne possenti per decine di metri. Mi chiedo quanto dovesse essere forte, nel Trecento, la convinzione che ci fossero un Dio e un’eternità. O forse era il modo, per una città, di ritrovarsi, di raccogliersi. Senza Facebook, doveva esistere un luogo fisico nel quale ritrovarsi. Facebook oggi è la grande cattedrale in cui ci ritroviamo, a gruppetti, ognuno con la sua paura, le sue mezze gioie da condividere, ognuno con il suo dio. In chiesa si moriva. Alla fine del Quattrocento, proprio qui. Forse dove sto camminando io. Ammazzarono a pugnalate Giuliano de’ Medici, il fratello minore di Lorenzo il Magnifico. Una serie infinita di pugnalate. E non era l’opera di un folle, di un kamikaze. Era l’atto di una guerra tra cosche, era un delitto organizzato. Fra i mandanti c’erano principi e re: il re di Napoli, Ferrante d’Aragona, e Federico da Montefeltro, signore di Urbino. E persino un papa, Sisto IV. Dovevano morire insieme, i due fratelli. Si erano seduti però, per precauzione, in due angoli lontani della chiesa. Giuliano lo ammazzarono subito: Lorenzo, dall’altra parte, fu aggredito da due preti, Antonio Maffei e Stefano da Bagnone. Due che potevano stare accanto a Lorenzo senza sospetto, perché due religiosi. Ma non due killer professionisti. Giuliano lo circondarono: un colpo di spada. Lui cade a terra. Francesco de’ Pazzi lo prende a coltellate con una rabbia, con un furore che lo porta anche a ferirsi ad una gamba. Dall’altra parte, Lorenzo il Magnifico si difende, tira fuori la spada. I due preti non riescono ad ammazzarlo, Lorenzo si riorganizza, è ferito al collo, ma si difende. Ma potevano portarsi le spade in chiesa? Bernardo Bandini, quello che aveva colpito per primo Giuliano de’ Medici, capisce che dall’altra parte hanno fallito, corre per uccidere Lorenzo: nel panico generale, mentre la gente crede che stia crollando la chiesa, Bandini corre verso Lorenzo, uccide Francesco Onori, amico di Lorenzo: ma nella sua corsa contro Lorenzo, lo fermano i cantori del coro. Gli amici lo portano in salvo nella sagrestia, mentre in chiesa ci sono grida e terrore. I congiurati gridano in piazza “popolo e libertà”, ma nessuno dà loro retta. La gente non capisce, ha paura. Altri corrono verso piazza Signoria, per prendere possesso del palazzo e annunciare il colpo di Stato. Ma il colpo di Stato non è riuscito. E nelle ore e nei mesi successivi, tutti i congiurati moriranno, atrocemente.