RIFLESSIONI SULLA MORTE DEL 29ENNE DI TORINO
Sabato scorso, verso le 23, un uomo di ventinove anni è morto alla fermata metro Dante, a Torino, cadendo da un’altezza di dieci metri. Non ci sono dubbi – così è emerso, oltre che dalle testimonianze, dalle immagini – sulla dinamica: egli si è messo a cavalcioni sul mancorrente di una scala mobile, ha perso l’equilibrio ed è volato giù. Io non ero a Torino. Quando ho letto la notizia, domenica mattina, ho cercato di visualizzare come possa essere accaduto, perché conosco molto bene le stazioni della metropolitana e i racconti giornalistici non erano molto chiari sulla dinamica esatta. Quando ho visto che cosa era successo, il primo pensiero è stato che se avesse scelto l’altro mancorrente sarebbe ancora vivo. Appena passati i tornelli, per accedere ai treni occorre infatti scendere, in altitudine, di una decina di metri. Ci sono due possibilità – come dire: più corsie in una unica carreggiata -: scendere le scale, oppure prendere la scala mobile. Al termine della rampa si arriva a un piano intermedio –una specie pianerottolo intermedio gigante, se immaginiamo di scendere un piano di un palazzo – da cui partono altre rampe che portano alla banchina. La scala mobile è a lato, attaccata alla scala fissa: ecco perché, se avesse scelto l’altro mancorrente, il ragazzo sarebbe ruzzolato sui gradini e avrebbe qualche livido alle ginocchia, al più al fondoschiena. Invece al lato destro della scala mobile c’è il vuoto. Se guardi giù, vedi la banchina. È un pertugio largo un metro, forse meno. La metropolitana è il mezzo di trasporto che uso di più, eppure a quel buco non avevo mai fatto caso. Neppure mi ero mai affacciato a guardare giù. Sono andato, previa preparazione psicologica, a leggere i commenti alla notizia sulla pagina Facebook della Stampa. Immaginate. Sostanzialmente è morto un coglione, per i sentenzianti che un minuto dopo erano altrove, a commentare cani o il campionato di calcio. Però questi commenti rimangono, nessuno si è messo nello stato d’animo dei famigliari che oltre all’insuperabile trauma devono leggere l’oltraggio della memoria. Questa mattina ho notato un’altra cosa: questo spazio, in movimento, non si vede. Forse è per questo motivo che non mi è mai venuto l’istinto a guardare giù. Quando passi i tornelli e cammini quei pochi metri verso la scala mobile, essa è del colore del muro che le sta un metro oltre, sullo sfondo, pertanto la percezione in prospettiva è che il buco non ci sia. Se cammini, lo spazio non lo vedi. Lo vedi quando ti fermi. Così ripenso il ragazzo, era con amici, la spensieratezza di un sabato ancora estivo in compagnia, la cena, magari l’ebbrezza del bicchiere in più, la bellezza e il rumore della felicità, passare i tornelli, puntare dritto a quel mancorrente – e non all’altro -, il gesto esuberante, accorgersi dell’insidia quand’è tardi, e finire così, sul pavimento. Ciascuno di noi dà per scontato di essere vivo per merito, invece decine, forse centinaia sono le volte in cui si è sfuggiti alla morte, spesso senza saperlo, per la semplice volontà del caso. Di solito, a questo punto, si dà una scrollata alle spalle e si passa oltre, valendo la formulazione dei pensieri in un certo ordine e la loro stesura come momento catartico e contemplativo, che esaurisce la forza emotiva. Talvolta la forza emotiva invece non si esaurisce e uno rimane lì, come un coglione, a pensare a quelle scale e quel mancorrente, senza sapere neppure cosa chiedersi.
