A PROPOSITO DI DONNE

A PROPOSITO DI DONNE

Nella Repubblica del Congo la violenza nei confronti delle donne é una cosa normale.Stupri e violenze sessuali continuano ad essere il frutto quotidiano di un conflitto che oltre a morte e distruzione ha portato quasi un milione e mezzo di persone fuggire dalle povere case, dai villaggi.UNHCR, l’Alto Commissariato Onu per i rifugiati, opera per quello che può a dare, assistenza e riparo a questa marea umana. Un altro dei compiti è quello di portare testimonianza di quanto succede. In questa giornata dedicata a rafforzare i diritti delle donne ecco la testimonianza sofferta e dolorosa, non certo di compassione, per le nostre sorelle che vivono in terra d’Africa.Testimonianze che ci servono per dare valore e rendere omaggio alla loro forza.Ecco la testimonianza di tre donne cominciando con Germaine Alonde, 25 anni:“Hanno ucciso mio fratello maggiore. È stato terribile. Abbiamo visto così tanto sangue, ed ogni volta era come se il mio cuore smettesse di battere. Non riuscivo più a dormire. Un giorno sono arrivati vicino casa nostra per ricominciare ad uccidere e siamo tutti scappati. Eravamo terrorizzati – tutti correvano. Sapevamo cosa avrebbero fatto. Mia figlia maggiore Thérèse, che aveva 7 anni, ha preso sua sorella di 2 anni Hélène, mentre io sono corsa sul retro della casa per portare via gli altri bambini. Al confine era un caos, venivamo spinti in ogni direzione ed io non riuscivo più a trovare Thérèse. Ci ritrovammo tutti separati. Nella confusione Hélène le è caduta dalle braccia. Per due settimane abbiamo pensato non l’avremmo mai più rivista. Un giorno ero nel campo ed una vicina mi dice di averla vista. Non potevo crederci! Eppure ne era sicura. L’aveva vista in un centro per minori non accompagnati. Siamo subito corsi da lei e ci siamo finalmente riuniti. È stata una gioia immensa!”.Il racconto di Theresa Mandaka, di 19 anni“Soffriamo tanto. Noi donne siamo i bersagli prediletti, le sofferenze peggiori vengono riservate a noi. Quando i soldati sono arrivati, mio marito non era in casa. Era uscito a cercare lavoro. Io ero a casa ed ero malata. Ero incinta. Nonostante fossi malata sapevo che sarei dovuta scappare. Ho pensato che avrebbero ucciso il bambino che avevo in grembo. Ecco dove ho trovato la forza: dentro di me. Adesso, qui nel campo, sono una madre e devo essere forte”. Thérese fa una pausa e prende coraggio. Non ha più rivisto suo marito da quando è fuggita in Angola. Lui non ha potuto conoscere suo figlio, Munduko, che ora ha quattro mesi. “Vorrei solo che fossimo di nuovo tutti insieme”.Ed infine il racconto riportato da UNHCR di Lina Mananga, di 18 anni: “Non appena arrivati hanno iniziato a sparare e a decapitare le persone. Era rivoltante. Ogni giorno ci svegliamo, andiamo a prendere l’acqua, laviamo i vestiti, ci procuriamo del cibo e lo cuciniamo. Queste sono le nostre giornate. È dura. Ricordo perfettamente il giorno in cui siamo fuggiti da Kamako. I bambini erano vestiti di rosso quando le truppe hanno iniziato ad arrivare. Hanno iniziato immediatamente a sparare e a decapitare le persone. Era rivoltante. Da donna sapevo di essere in grave pericolo. Ero incinta e sapevo che avrebbero ucciso mio figlio, anche se avessi partorito quel giorno stesso. L’avevo già visto fare. Ho solamente un figlio. A causa della violenza ho avuto un aborto spontaneo e ho perso l’altro bambino. Sono giovane e devo essere forte. Ma non tutti ci riescono”.