IL MIO “PERDONO”
Mio nonno Lele mi aveva dato il permesso di abbassare un po’ il prezzo del latte, – non lo “ravvelire” troppo – mi aveva detto, mi sarei così fatto altri clienti oltre al “Marchese” e l Michelassi che da sempre apprezzavano il nostro latte appena munto. Avrei tentato di venderlo anche al padrone dei “bolidi” che avevano già cominciato a scaricare a metà di Piazzale San Francesco e a quello del Castello degli Specchi Deformanti. Non era piacevole tutte le sere lasciare la festa, prendere la stagna di alluminio pesa arrabbiata e fare il giro dei “cavallini”. Ma anche quest’anno mi a vrebbero dato una mano Franca, la mia cugina magra magra e Massimo, il mio fratellino piccolo piccolo. Facevano tenerezza e i biglietti omaggio sarebbero fioccati come l’anno passato. A loro avrei lasciato quelli per le giostre da piccoli e per me gli altri, forse anche qualcuno dei “bolidi”. Dovevamo fare presto perchè mia zia Giulia e Lisa, la contadina, dovevano cominciare il giro dei clienti abituali ed avevano bisogno della stagna. Il tratto da percorrere non era lungo. La nostra casa, appena fuori le mura di Terranova, era la prima colonica, dietro tutti campi. Quest’anno avevamo fatto abbastanza anche nella raccolta di ferro, alluminio e rame e il “Billera” mi aveva pagato bene, più di me solo l’Amerighi, ma lui era un mago nella ricerca di questi materiali, era riuscito a scovare anche piombo dagli avanzi delle condutture delle case in costruzione: già ora tutte le case mettevano l’acqua. Bello sarebbe stato non scendere più alla pompa nell’aia con la mezzina di rame, toccava quasi sempre a me. Sentivo ancora negli occhi il bruciore delle fiammelle verdi-azzurrognole che sprigionavano dalla gomma della ricopertura dei fili elettrici quando, con Mauro, bruciavamo, lungo il greto del Ciuffenna, i frutti della nostra ricerca: il “Billera” voleva solo rame pulito. Noi giudiziose formiche, poco più in là, alcuni dei nostri amici, allegre cicale, incuranti dell’avvicinarsi del Perdono, si divertivano a far saltare barattoli di “latta” per conserve con il carburo.Qualche soldo l’avevo ricavato anche da mio nonno l’estate appena trascorsa: quindici lire per ogni ballino di “velucchio” ed “erba grassa” per i maiali. Mi ero dedicato alla raccolta quando mi stancavo di giocare con secchiello e paletta nella terra della strada che stavano costruendo, una strada grandissima, la chiamavano circonvallazione. Di lì a poco sarebbero arrivate squadre di scarpellini che con i loro piccoli martelli avrebbero sminuzzato i ciottoli per l’ammassicciato. Stavano costruendo anche un bar e dietro, verso il Ciuffenna, si diceva che avrebbero fatto un campo sportivo, regolare, come a Montevarchi e a San giovanni. Finalmente! Il Renzini e il Cacchiani, le guardie, non ci avrebbero più portato via il pallone mentre giocavamo nel mezzo della strada, incuranti delle sbucciature e della pelle dei ginocchi e delle cosce lasciata sull’asfalto.Poi sarebbero arrivati gli zii di Francia, di soldi avrei dovuto averne a sufficienza e potevo fare a meno di aiutare i giostrai a montare “i cavallini” evitando, al contrario di molti dei miei compagni, di dover, per forza, arrabattarmi fra il sudore, il “sugnaccio” e il grasso di una faticaccia incredibile.Sentivo l’eccitamento crescere dentro. Sarebbe stato un perdono memorabile. Il tempo pareva promettere bene, non come l’anno passato, quattro giorni di pioggia ininterrotta. Il sabato sera dei tre botti iniziali si stava avvicinando e i ragazzi di Terranuova parevano perfino dimenticare che tra un po’, il mercoledi successivo alla festa, le scuole avrebbero riaperto i battenti.Avrei speso la maggior parte del tempo alle giostre, ma c’erano tantissime altre cose da vedere.Il guaritore, un tipo allampanato dal colore di un cadavere nella sua camicia bianca e giacca nera, con guance affossate ed occhiaie profonde di un bluastro-viola allestiva il banco vicino alla strada che conduce al cimitero, proprio davanti alla stalla dei tori da monta del “Boneca”. Aveva una parlantina speciale e produceva un prodotto miracoloso, efficace contro ogni tipo di malanno, una specie di pomata in delle scatoline di “latta” con sopra una descrizione in uno strano e indecifrabile alfabeto. Penso che l’adoprasse anche come brillantina, i suoi capelli, pettinati all’indietro, erano appiccicati al cranio, umidi e unti. Sul banco un barattolo di vetro con una vipera sotto formalina, un cobra imbalsamato, una vedova nera rinsecchita e infilzata con uno spillone su una tavoletta di legno e un piede, come di cera, con ferite fra le dita e sul dorso. A parte il piede non riuscivo a capire come potessero essergli utili nella vendita le altre cose, però facevano scena. Vendeva anche lamette confezionate in stecche di pacchettini coloratissimi come le figurine con le quali giocavamo a “figura e zucconi”, e non anonimi come le “Gillette” che usava mio padre per la sua dura barbaccia.Il panchetto improvvisato delle tre campanine o delle tre carte mi affascinava. Come potevano farsi fregare quei tonti, possibile non riuscissero ad individuare i compari, i complici; ero certo che se avessi avuto le cinquemila lire avrei vinto, io vedevo dove andava a finire la pallina di pece.Nel gioco del “cavallino e dei colori” qualcuno vinceva davvero, il banco sempre.Un po’ da lontano, qualche volta, avevo anche spiato i giocatori di “toppa” lungo la “lama” del fiume. Contadini e montanari per tutto l’anno avevano confezionato ceste, corbelli e bigoni, non rubando tempo al lavoro, ma a qualche raro momento di pausa per maltempo. Il suo l’avevano fatto comunque, non risparmiandosi. Probabilmente il ricavato di questo “tempo libero” non era gran che, tanto valeva rischiare di perderlo per tentare di raddoppiarlo o triplicarlo. Ero dalla loro parte, ma raramente uno di loro tornava dall’alberaia soddisfatto.Soddisfatto invece la sera ero io, quando mi mettevo a contare le biciclette accatastate nell’aia in un parcheggio caotico e improvvisato: Il nostro Perdono piaceva, i proprietari delle bici venivano tutti da fuori. La Fiera degli Uccelli nel viale dei tigli con la gara di imitazione mi teneva tutta la mattinata del lunedì lontano dalle giostre. I tordi in gara erano dei campioni. Ero in grado di valutarlo, mio padre mi portava a “nocetta” con lui, tre in Lambretta: mio fratello ritto davanti ed io dietro con il fardello delle gabbie. Avevamo solo degli “zirli”, ma per la prima volta i “richiami” erano in chiusa nel sottoscala della stanza del“falcione”, lo si indovinava anche dall’odore non solo di foraggio tagliato, e c’era da sperare in qualche “verso” inatteso.Poi la corsa del martedì. L’anno prima era stata fenomenale. Andrea Prisco di Perugia era arrivato alla stazione di Montevarchi con la bicicletta bagaglio appresso. In sella fino a Terranuova e si era cambiato nella nostra stalla. Ero convinto che avrebbe vinto, le sue gambe muscolose e prive di peli davano l’impressione di forza. Lasciò in aria un buon odore, a metà fra la canfora e lo stallatico. Dopo due giri da Arezzo, sotto una pioggia battente tagliò per primo il traguardo. Fece il bagno in una “bigonciola” con l’acqua scaldata con il bollitore del “ranno”, mise una enorme coppa nella bisaccia e inforcò la bicicletta per la stazione di Montevarchi.La sera i fuochi in piazza. Lì un petardo rimbombava come una cannonata. Ma dopo l’ultimo scoppio una nostalgia tremenda mi assaliva, mancava un anno intero al prossimo Perdono. QUARANTA ANNI DOPO.Molto è cambiato, l’atmosfera è la stessa. I profumi di croccante e “bastoncelli”, di salsicce e porchetta delle bancarelle ti solleticano le nari come allora. Gli odori che ci arrivano dalle finestre delle case, “nana” o pollo in umido, sono gli stessi. Mio padre, io e mio figlio ci radiamo ancora con le Gillette, mia madre cucina ancora i “rocchini” di sedano, l’attesa spasmodica per la nostra festa si muterà ancora in nostalgia dopo l’ultimo botto. ANCORA DOPO DIECI ANNI.Mio padre e mia madre non ci sono più, le Gillette sono introvabili, mangio i “rocchini” delle mie sorelle, ma il Perdono è sempre lo stesso. Da un articolo per “Valdarnia” novembre 1998.
