PROTESTE A BELGRADO. UNA QUESTIONE CHE RIGUARDA TUTTA L’EUROPA

PROTESTE A BELGRADO. UNA QUESTIONE CHE RIGUARDA TUTTA L’EUROPA

E fanno quattro. Belgrado come Parigi con in più la neve e in meno gli scontri e il numero dei partecipanti alle proteste. Per il resto il mese di dicembre si è contraddistinto per i giorni del sabato, quando entrambe le capitali sono state attraversate da menifestazioni di protesta ostili alle rispettive Presidenze di Francia e Serbia. Della Francia molto sappiamo, della Serbia quasi nulla. Diversi gli obiettivi rispetto a quelli dei cugini d’Oltralpe, anche se, pure a Belgrado e dintorni, le condizioni economiche sfiorano il dramma per la popolazione più povera e il salario medio si aggiri intorno ai 400€. Il punto centrale delle proteste belgradesi, che hanno come obiettivo il presidente Vucic, si rifanno infatti alla questione morale. Corruzione, libertà di stampa, arroganza del potere. Che Vucic costituisca un modello di buon governo da imitare pochi lo sostengono anche tra i suoi elettori. Che abbia costituito un blocco di potere fondato sul dualismo amico/nemico nel quale ai secondi non viene concesso nulla o quasi sono in molti a ritenerlo, soprattutto tra coloro che costituiscono l’Alleanza delle opposizioni.  Che l’informazione stia per essere monopolizzata dai governativi è più che un’ipotesi. Pure il movimento di protesta è variegato e multiforme e non sembra facile classiificarlo in maniera univoca. Dapprima si è rifatto ad una maglietta insanguinata, quella di Borko Stefanovic, un esponente dell’opposizione, picchiato a sangue nella città di Krusevac da soggetti poi incarcerati, ma che qualcuno sostiene si siano ispirati alle critiche formulate da Vucic contro lo stesso Stefanovic. Il monopolio dei media trova riscontro nel fatto che due reti private, sono state acquisite tramite una complessa operazione finanziaria, da ambienti legati alla Presidenza, lasciando così uno spazio minimo alla informazione dissidente. L’arroganza del potere è risuonata nelle parole dello stesso Vucic, che di fronte a una piazza che lo definiva “ladro” (qui le analogie Parigi/Belgrado hanno qualche riscontro), ha risposto che non se ne sarebbe andato nemmeno di fronte a 5 milioni di manifestanti. Così dopo quelli della “maglietta insanguinata”, gli ultimi sabati hanno visto scendere in piazza quelli (i medesimi più altri) dell’1 dei 5 milioni. Proteste legittime nelle quali però non è facile individuare un orizzonte strategico ben definito visto che, una volta deposto Vucic, non è ben chiaro, nell’immediato, chi potrebbe e vorrebbe prenderne il posto. Sì perché, è inutile nasconderselo, ma quando si parla di Balcani e di Serbia in particolare, chi ricopre incarichi di potere si trova a dover risolvere situazioni internazionali di complessità indicibile. Un ambito nel quale Vucic, a dispetto delle molteplici pecche dimostrate sul fronte della moralità politica interna, non se la cavava particolarmente male. Qualcuno ha ricordato che le manifestazioni dell’ultimo mese si sono distinte per l’uso di un fischietto, ricordando manifestazioni analoghe svoltesi a Belgrado da chi dissentiva dalle posizioni e dalle azioni di Milosevic. Tempi drammatici che si volsero poi nella tragedia di una guerra sia per i sostenitori di Milosevic che per i suoi oppositori, a prescindere dai torti e dalle ragioni. Oggi è sul tappeto la questione delle relazioni tra la Serbia e il Kosovo, ma soprattutto, come 20 anni fa, dietro di essa si intravvede una guerra non guerreggiata nella quale la collocazione di Belgrado in politica internazionale può risultare determinante per gli equilibri interni all’area. C’è una trattativa Belgrado-Pristina che procede a singhiozzo. Dopo che un’intesa sulla redifinizione dei confini pareva avvicinarsi si è avuta la risposta di Pristina che ha proclamato di volere costituire un esercito a dispetto di ogni prospettiva di soluzione pacifica della vertenza. Oggi, c’è un momento di relativo abbassamento dei toni. Belgrado che punta soprattutto all’abolizione dei dazi dei kosovari albanesi sulle merci serbe. Pristina che si dichiara pronta a riprendere i contatti, non specificando su che base. Trump che scrive ad entrambi in previsione di brindisi festanti a felice chiusura della vicenda. L’Europa che guarda altrove, chi ai Gilets gialli, chi alla Brexit, chi alla fine del proprio mandato, chi alla finanziaria. Ma resta il punto dolente: accogliere o no i serbi nella Ue? Se sì a quali condizioni? Come si deve collocare Belgrado rispetto a Mosca che qualche aiutino sul piano delle forniture militari glielo sta dando? Può avere qualche pretesa Vucic (quello ad uso esterno), sul versante occidentale, se rifiuta di sanzionare l’amico Putin e se si oppone alle intromissioni della Nato nel nome del non allineamento? Anche qui, nella Ue, falchi e colombe. I primi sono rappresentati dai Baltici (Lettonia, Polonia, Lituazia, Estonia). I secondi, recentemente dichiaratisi pro Belgrado senza mezzi termini, rappresentano il sud est del continente (Bulgaria, Grecia, Romania). Partita aperta. Cosa c’entra tutto questo con le piazze belgradesi di queste settimane? Non amiamo la dietrologia ma è chiaro che tout se tient. Un governo esautorato e senza alternative lascerebbe la Serbia come una foglia al vento nel momento di importanti partite internazionali che verrebbero decise altrove. Cosa dice Mosca? A leggere le news dell’Agenzia russa Sputnik, Mosca se ne sta alla finestra in attesa degli eventi. Denuncia ingerenze da parte dell’occidente, ma non si straccia le vesti per aiutare l’amico Vucic. Forse perché ritiene che se la possa cavare da solo o forse invece perché anche al Cremlino non si disdegnerebbe un cambio della guardia, certo diverso da quello che piacerebbe a Washington. Vucic nella tenaglia. Che ne venga fuori lui potrebbe essere una questione personale di scarso interesse, ma se non ne venisse fuori il suo paese sarebbe una questione di interesse generale, tale da coinvolgere territori anche al di là dei confini, come l’Italia, che forse si pentirebbe di non essere saputa intevenire in tempo debito.