MISTERIOSO ASSALTO ALL’AMBASCIATA NORD COREANA A MADRID
La magistratura spagnola ha rivelato nuove informazioni sul misterioso assalto all’ambasciata nord coreana a Madrid. Gli inquirenti hanno accertato che a guidare il commando c’era un messicano d’origine coreana residente negli Usa, Adrian Hong Chang. Una figura enigmatica – noto tra gli esuli nord coreani – che dopo l’intrusione del 22 febbraio avrebbe contattato l’Fbi offrendo il materiale trafugato nella sede diplomatica. Chi sono i protagonisti della spy story? Elementi collegati alla Cia? Oppure gli oppositori di Kim – gruppo Cheollima – che hanno rivendicato l’atto? In documento di 14 pagine il giudice ha ricostruito le fasi. Il team è arrivato in Spagna nell’ottobre 2018 ed ha iniziato una lunga fase preparatoria. Sorveglianza, verifica delle misure di difesa, possibilità di sabotaggio di linee elettriche/telefoniche. Ai primi di febbraio si è infatti verificato un incendio in una centralina della zona dove sorge la sede diplomatica. In seguito il nucleo ha pensato al materiale. Sono state acquistate pistole a salve, fondine, pugnali, rotoli di nastro adesivo, cesoie, catene, scala telescopica. Al fianco di Chang, in questo ruolo logistico, il coreano Ram Lee e l’americano Sam Ryu. Il 22 sempre Chang, che aveva già visitato gli uffici una settimana prima con una scusa, si è presentato all’ambasciata e si è fatto aprire. Pochi istanti dopo ha permesso ai complici di entrare. La «squadra»di 10 elementi ha immobilizzato i funzionari, alcuni sono stati percossi. Violento il pestaggio riservato all’incaricato d’affari, minacciato al cospetto di moglie e figlio. Sembra che gli assalitori, tutti dai tratti asiatici, abbiano chiesto al diplomatico di tradire il proprio paese. Lui si sarebbe rifiutato. Un particolare curioso: Chang aveva una patente di guida italiana intestata a Matthew Chao e un account Uber in nome di Oswaldo Trump. L’operazione è stata solo in parte compromessa dall’allarme dato da uno degli ostaggi. Una donna si è barricata in una stanza e, prima di venire sopraffatta, è riuscita a gridare da una finestra. Una richiesta d’aiuto udita da uno dei vicini che ha avvisato la polizia. Alcune pattuglie hanno raggiunto l’ambasciata ed hanno suonato al cancello: ad accoglierli c’era il capo del commando, Chang che, dopo aver indossato una delle spilline del regime, ha fatto fitta di essere un impiegato. Ha rassicurato gli agenti sostenendo che non vi erano problemi. Una mossa per guadagnare tempo. Il team è infatti poi fuggito a bordo dei mezzi trovati nel parcheggio della rappresentanza ed altri lasciati nelle vicinanze. Successivamente il nucleo ha raggiunto il Portogallo, infine l’aeroporto americano di Newark. La storia presenta non pochi risvolti intriganti. Il primo. La polizia sospetta che ad agire sia stata l’intelligence Usa, magari attraverso dei contractors d’origine coreana. Diverso lo scenario prospettato dalla rivendicazione e dal profilo del protagonista. La micro-organizzazione Cheollima ha assunto la responsabilità dell’incursione mentre Adrian Hong Chang lo ritengono l’animatore del nucleo. Figlio di missionari coreani trapianti in Messico, ha poi partecipato a tentativi di aiutare transfughi della Nord Corea in Cina dove è stato arrestato nel 2015, fondatore di una ONG. Un personaggio noto tra gli osservatori. Tutti dettagli che farebbero pensare ad un coinvolgimento diretto del gruppo di oppositori, anche se analisti hanno espresso dubbi sulle loro capacità. A meno non abbiano operato con un supporto di un servizio. Il secondo aspetto è il motivo dell’attacco. Si è detto che gli intrusi stessero cercando informazioni sull’ex ambasciatore nord coreano, Kim Hyok-chol espulso dalla Spagna in Ottobre. Il funzionario nel frattempo è diventato uno dei negoziatori con gli Usa. E a sostegno di questa tesi c’è un particolare: durante l’assalto sono stati rubati computer e telefonini, forse anche documenti. Ma si è ipotizzato che volessero impossessarsi dell’apparato per decifrare i codici segreti. Questo spiegherebbe l’offerta del bottino all’Fbi. Infine il terzo interrogativo. Perché mai è stato lanciato un «raid»a pochi giorni dal summit – poi fallito – tra Trump e Kim ad Hanoi? A Pyongyang l’avranno considerata una provocazione grave e saranno inquieti per la sicurezza delle comunicazioni nelle ambasciate. La circostanza che il «messicano»Chang si sia rivolto ai federali potrebbe essere una prova che sono siano davvero quelli di Cheollima. Ma questo vorrebbe dire che sono sfuggiti ai «controllori» in una situazione che ricordano quelli degli anti-castristi cubani. Oppure si sono mossi in parallelo in una crisi dove lo spionaggio sta giocando un ruolo importante. La storia non è certo finita.
