PREVISTA MA SCOMODA. CONSEGUENZE DELLA MORTE SOTTO PROCESSO DI MORSI, NELL’EGITTO DI AL-SISI
E’ di due giorni fa, in Egitto, la morte durante il processo, per arresto cardiaco, di Mohamed Morsi, già presidente di quel paese. Democraticamente eletto e detenuto in un carcere da cui è difficile uscire vivi, nonostante una grave condizione fisica, dovuta al diabete. Morsi ha rappresntato simbolicamente gran parte delle contraddizioni che attanagliano il ceto politico del vicino e medio oriente. Trascorsi di studio da tecnocrate, ingegnere con un passato statunitense nelle università californiane. Leader del Partito integralista dei Fratelli Musulmani, sostenuto da un Qatar poco incline alla nonviolenza multietnica. Pure unico leader pervenuto al potere, in Egitto, mediante libere elezioni. Integralista e perfino bigotto, nell’accezione occidentale del termine, all’apparire di qualche nudità femminile. Ma tutto dedito alle mediazioni durante il breve anno della sua presidenza. Dopo un’elezione vinta sul filo del rasoio ma in tutta regolarità, nel 2012, contro il candidato laico considerato l’erede di Mubarak. Un’apertura alle donne, un’altra ai cristiani copti. Ma anche un’altra apertura, fatale, ai militari. Proprio a quell’al-Sisi, da lui nominato ministro della difesa, che realizzerà il golpe che metterà Morsi fuori uso. Tentativi di agire compromissorio anche sul piano internazionale, ma riconciliare Hamas e Israele costituiva una missione impossibile. Tanto più con in tasca la tessera di partito dei Fratelli Musulmani. Dicono che il golpe di al-Sisi sia stato propiziato dai magistrati, dato che l’invadente Morsi pareva non gradire la separazione tra politica e magistratura. Dicono anche che una sfavorevole congiuntura economica gli sottrasse il consenso popolare. Oppure che copti e laici abbiano accondisceso, compresa una figura di grande dignità scientifica e umana come El Baradei (colui che in sede Onu si era battuto contro la truffa che aveva portato alla guerra in Irak). Ma fu soprattutto il fuoco amico del ministro al-Sisi, futuro leader, che ne provocò dapprima gli arresti domiciliari e poi l’incarcerazione. In uno dei sistemi carcerari più duri: con tanto di evasione offerta, ma non raccolta, su di un piatto d’argento, Troppo facile per non lasciar presagire un finale tragico. Dopo le mediazioni di Morsi arrivarono quelle di al-Sisi, ma non più sul piano della politica interna, dove casi come quelli del nostro Regeni testimoniano la pesantezza della situazione. La duttilità della politica egiziana si manifestò e ancora si manifesta esclusivamente sul terreno della politica internazionale. No categorico ai Fratelli musulmani, ma convergenze frequenti di vedute, come in Libia, coi sauditi e gli emiri che quanto ad integralismo non ci vanno per il sottile. Vicino ad Israele, ma lasciando aperto uno spiraglio per la mediazione coi palestinesi. E sullo sfondo buoni rapporti con Mosca con una convergenza di vedute pro Haftar, uomo forte, ma meno del previsto, in Cirenaica. Il tutto senza lasciar perdere gli Usa. Anzi, offrendosi come intermediario nell’operazione “patto di ferro” con Israele. Acquisendo tra l’altro l’accondiscendenza di Trump nei confronti del filo russo Haftar in Libia. Oggi può dunque, l’invincibile al-Sisi, concedersi una morte fragorosa, come quella del suo storico oppositore Mohamed Morsi? Quali sono le prospettive per il futuro? Qui fioriscono i dubbi. Se è vero che la sepoltura di Morsi è avvenuta in gran segreto, per la serie “che non si sappia in giro”, qualcosa lascia presagire che il defunto ex presidente, per il regime, sia più scomodo da morto che da vivo.
