UNA PARTITA DA TENNIS DA MITO. RISKIE (DAVIDE), UMILIA LA BERTENS (GOLIA)

Un po’ di zucchero, ci sono ancora dei biscotti: colazione da re, mio caro me. Sii felice, non devi essere scontento di questa vacanza reale in casa tua, nel tuo bilocale con uso di fantasia. Nel tuo bilocale con uso di parole in libertà, nel tuo bilocale con uso di speranza, nel tuo bilocale con lucina sopra il computer. E poi accendere la televisione. Il tennis. Una partita sull’erba, una finale: ma non è Wimbledon. C’è Kiki Bertens, gigantessa bionda, vichinga di un metro e ottanta, lunga treccia bionda sulla schiena. E un’americana, più esile, delicata. Dentini da castoro, e venti chili di muscoli in meno. La Bertens con le sue braccia da guidatore di Tir domina il primo set: 6-0, una passeggiata. Per una finale, roba d’altri tempi. Ma nel secondo set si fa male, da sola. Mette male il piede, o il muscolo – uno dei suoi muscoli potenti – si è stirato, non si capisce bene. Passano i minuti. Silenzio sul campo. Esce. Va a farsi medicare. Forse torna, o forse persino no. Poi torna, con una fascia alla coscia sinistra. E nel secondo set è battaglia vera. L’americana esile e gentile – si chiama Riske, e forse non è nemmeno gentile, ma a me sembra – combatte con tutte le sue forze, annulla quattro o cinque match point, la partita che doveva finire in un battibaleno si tira in lungo, la ragazza dà fondo a tutte le sue energie nervose. È a un millesimo di secondo dalla fine, per cinque volte. E per cinque volte riesce a non andare giù, a non finire al tappeto, a prolungare ancora di qualche secondo la partita. Quel momento in cui sei a un millesimo di secondo dalla fine si chiama match point. E nei match point, tutte le volte la ragazza esile va all’attacco, con un coraggio commovente, sul filo del rasoio, sul filo della riga, rischiando ogni volta di buttare la pallina in rete per sempre. Lei è la numero sessantaquattro del mondo; Kiki Bertens la quarta. Ma continua a rischiare la volée con quelle braccia fragili, che sembra facciano fatica a tenere in alto la racchetta. Geme ad ogni colpo, come se non ne avesse più. Ma riesce ad arrivare al tie break del secondo set: come dire, al fotofinish. Ma io non lo so come è andata a finire. È incredibile come riesca a vivere con passione le partite di tennis, ma riesca ad abbandonarle anche all’ultima pagina. Non so se vincerà la vichinga bionda, come è nell’ordine delle cose. O se la crepa nella sua fiducia, creata dalla resistenza dell’americana esile, diventerà una frana, una breccia dentro cui l’altra riuscirà a infilarsi, fino ad abbatterla, fino a vincere. Non so se l’americana sorriderà, alla fine, salutando stupefatta il pubblico che la applaude, replicando una volta ancora la consolante fiaba di Davide e Golia. O se alla fine se ne andrà in silenzio, riponendo la racchetta nella sacca in fretta. Con il pensiero che un’occasione così, alla sessantasettesima del mondo, non capita più. Devo andare, devo andare. Devo lasciare queste mura che si stanno scaldando. Se non vado via subito, rimarrò a casa tutta la giornata, tutta la settimana, tutta l’estate, tutta la vita.