DISOCCUPAZIONE IN ITALIA. DAL 2008 NON FA CHE CRESCERE. E ORMAI E’ CATASTROFE UMANITARIA.

A rincuorarci ulteriormente in questo periodo di recessione, esce il rapporto annuale sull’ occupazione nelle imprese stilato dall’ ISTAT. Nel periodo preso in considerazione (dal 1977 al 2012) risulterebbe aumentato il numero dei disoccupati (praticamente raddoppiato), passando da 1 milione 340 mila del 1977 a 2 milioni 744 mila del 2012. Unica nota positiva, nel bagno di sangue di queste cifre, che almeno in tale esplosione di nuovi disoccupati i dati non segnalano un accanimento nei confronti del lavoro femminile, da sempre oggetto di discriminazione e punto debole del sistema lavoro italiano: tali “nuovi” disoccupati sono composti dal 61,5% da uomini e dal 38,5%. Dati pesanti, che però vanno analizzati meglio, senza la freddezza matematica tipica delle statistiche. Intanto sono i dati riferiti all’ anno 2012: ricordiamo che la riforma del lavoro introdotta dalla riforma promossa dal ministro (speriamo presto ex) Elsa Fornero ha iniziato a produrre i suoi effetti nefasti solo (di fatto) nell’ ultimo quadrimestre dell’ anno 2012 e che hanno avuto il picco all’ inizio dell’ anno 2013. Picco di cosa? Ora è molto più facile licenziare lavoratori, è molto più difficile impugnare e ricorrere contro un licenziamento illegittimo e nel caso il lavoratore voglia procedere, intentando causa ed anticipando una cospicua parcella all’ avvocato che lo dovrà tutelare, ora i risarcimenti e gli indennizzi sono minori di quanto previsto dalla precedente normativa: motivo per cui, al costo “reale” di tre mensilità di stipendio di indennizzo + una mensilità e mezzo per spese legali, le ditte con meno di quindici dipendenti possono licenziare chiunque vogliano, anche senza motivazione. Praticamente quattro mensilità e mezzo per indennizzi e spese legali corrispondono allo stipendio, al TFR e ai contributi di tre mesi lavorati del dipendente: motivo per cui molte aziende stanno giubilando i vecchi lavoratori, quelli con contratti più onerosi in termini retributivi sostituendoli con contratti più economici (apprendisti e iscritti nelle liste di mobilità). E purtroppo, anche se l’ Istat ragiona in termini di numeri e non di legislazione del lavoro, il boom della disoccupazione riguarda soprattutto gli ultraquarantenni, spesso gente con anzianità in azienda elevata, gente che ai sensi della Legge 604/66 dovrebbe essere quella più tutelata essendo licenziabili per primi coloro con minor anzianità aziendale, con meno carichi di famiglia e con professionalità non reimpiegabili in azienda. Mentre (ed è una delle nefandezze previste dalla riforma Fornero) ora non solo è legittimo il licenziamento per soppressione del posto di lavoro ma è divenuto non troppo illegittimo il licenziamento per riduzione dei costi, ovvero licenziare un lavoratore per rimpiazzarlo con un pari mansioni ma con contratto di lavoro più economico (come sostituire un operaio con esperienza con un apprendista che costa il 60% in meno in termini di oneri aziendali). Mentre la disoccupazione giovanile ha avuto un incremento non sproporzionato al periodo di recessione, dicono, incremento in cui l’ Istat non ha però considerato i giovani non risultanti disoccupati in Italia ma che di fatto sono emigrati all’ estero. Altro dato da dover rilevare è che mentre negli anni ottanta e novanta, con un mercato del lavoro più vivace e ricco di opportunità molti erano i disoccupati di comodo, ovvero quelli che lavoravano irregolarmente “in nero” ma che preferivano risultare inoccupati e privi di reddito per poter fruire dei sussidi comunali e dell’ alloggio concesso in affitto a canone sociale, ora la disoccupazione diventa reale (essendo crollato il lavoro, sia quello regolare che quello in nero), con una cronicizzazione della disoccupazione: mentre una volta la persona di media professionalità permaneva disoccupato in media dai tre ai cinque mesi, ricercando occupazione, ora i tempi si sono di molto allungati oltre l’ anno e la rioccupazione è divenuta di fatto impossibile. Altra cosa: nel 1977 non era ancora in vigore la legge Biagi e il contratto di lavoro a tempo determinato veniva disciplinato dalla legge nr. 230 del 18/4/1962 che recitava “Il contratto di lavoro si reputa a tempo indeterminato, salvo le eccezioni appresso indicate”, non più di quattro motivazioni per assumere personale a tempo determinato. Ora vige la legge 368 del 2001 che “sbraca” le motivazioni per assumere la gente con contratti a tempo determinato tant’è che i dati diramati dal Ministero del Welfare (o del Lavoro e della Previdenza Sociale, come preferisco) dicono che, nei primi nove mesi dell’ anno 2012, ci sono stati oltre 640’000 licenziamenti a fronte di assunzioni per il 70% di personale a tempo determinato o in regime di precariato. Vengono computati nella manodopera attiva anche i contratti di lavoro a progetto (che per legge debbono essere anche loro comunicati all’ Ufficio di Collocamento) che fino al 1993 erano praticamente inesistenti, quando ancora venivano chiamati collaborazioni coordinate e continuative e che solo dall’ introduzione della legge Biagi (2003) smettono di essere un’ abuso divenendo un rapporto di lavoro vergognoso ma disciplinato dalla legge. E sempre dalla Legge Biagi viene introdotto e liberalizzato l’ utilizzo del lavoro somministrato (che, alla sua introduzione nel 1997 veniva ancora chiamato interinale) e che ha un boom, essendo una maniera di istituire rapporti di lavoro sottopagati e privati di tutele sindacali in maniera non opponibile, essendo dipendenti dell’ Agenzia e non dell’ azienda utilizzatrice. Va da se che non solo è raddoppiato il numero dei disoccupati, ma anche coloro che ancora non sono stati espulsi dal mondo del lavoro lavorano in regime di precarietà e di mancanza di tutele, in condizioni più degne degli anni ’50 e ’60 che del 1977, anno di riferimento e di raffronto dei dati da parte dell’ Istat. Unico dato (apparentemente) in crescita è quello delle donne occupate, che passa dal 31,5% al 41,3% del totale della manodopera occupata. Non sono “quote rosa”, non sono donne manager: quasi sempre sono lavoratrici assunte part-time, a cui non vengono retribuiti gli straordinari e altri diritti contrattuali e che vengono assunti a condizioni peggiorative rispetto a quelle dei colleghi di sesso maschile. L’ Istat ha diramato i suoi dati sull’ occupazione, dati che nella freddezza della matematica e della statistica possono sembrare dati agghiaccianti. Ma che se analizzati raffrontati al mondo reale e incrociati con altri dati, quali statistiche di altre fonti e il quadro giurisprudenziale e del mercato del lavoro in cui sono stati generati hanno la consistenza di vera e autentica catastrofe umanitaria.