DA “CARNEFICI”: LA RIVOLTA DI GENNAIO A CASTELLAMMARE DEL GOLFO E LA MORTE DI ANGELINA ROMANO
(da “Carnefici”)Francesco Bianco, autore di Castellammare del Golfo,1° Gennaio 1862. Surci e Cutrara, nel 2008 ha riproposto e reso universalmente nota la storia di Angelina Romano, nemmeno nove anni, fucilata dai bersaglieri di un altro eroe sabaudo, l’invitto Pietro Quintini, che si era talmente distintonel massacro di Scurcola Marsicana, da essere promosso generale; persino negli archivi militari è annotato che ordinava esecuzioni sommarie dei prigionieri. Nella cittadina del Trapanese, più di quattrocento giovani latitantiper sfuggire al servizio militare obbligatorio imposto daipiemontesi, insieme alla popolazione inferocita dal saccheggio dei beni pubblici ed ecclesiastici compiuto dai possidenti locali, linciarono quattro di questi. I militari posero fine alla rivolta, sette malcapitati (meno uno che sarebbe stato preso con le armi in mano, ma ci sono autori che ne dubitano) vennero giustiziati subito, inclusa una bambina; centododici finirono poi sotto processo. In Parlamento, si giustificò così la cosa: «Nell’impeto non hanno potuto i militireprimere un sentimento di giusta ira». «Li avrei fucilatianch’io» dice il deputato Paternostro («Ilarità generale –Bravo!» si legge nel verbale della seduta). Se poi i sette,bimba inclusa più un paio di settantenni e una disabile,c’entrassero o no, non può chiederselo chi è in preda all’ira (o all’ilarità).Bianco inquadra quanto accade (non è il solo, sulla vicenda esistono, fortunatamente, diversi testi), nello scontro fra “Surci” e “Cutrara”: le denominazioni con cui si sintetizzava l’appartenenza delle famiglie che si contendevano il potere nella cittadina, a una o all’altra fazione; i “Surci”, sorci, con i Borbone e i “Cutrara”, per il popolo, erano «i neo arricchiti, quelli che si erano divisi la “cutra”, cioè la coltre» scrive Bianco, citando lo storico Domenico Novacco; erano quelli «che, avendo già digerito i beni demaniali (vedi ex feudo demaniale di Scopello), si accingevano “a ingoiare i beni degli enti religiosi”». Dalla fine del Settecento ai primi del Novecento, l’elenco dei sindaci testimoniadell’alternarsi della prevalenza degli uni o degli altri, conl’occupazione totale, da parte degli affiliati, dei posti pubblici che davano potere ed emolumenti. Lo scontro, già insanguinato dall’assassinio del leader della rivolta liberale del 1848, Gioacchino Marcantonio Plaja, da politico divenne armato, visto che a seguito dell’invasione c’era una guerrain corso, e portò ai fatti del primo gennaio 1862. Ma,stando alla deposizione del generale Giacomo Medici alla Commissione parlamentare che, nel 1867, indagava sulla rivolta dell’anno prima a Palermo, il “Sette e mezzo”, c’è chi dà all’insorgenza di Castellammare del Golfo una lettura ben più ampia, perché gran parte delle centinaia di giovani che occuparono in armi il paese, indossavano «divise militari originali» ed erano raggruppati in pattuglie, ognuna delle quali con la sua bandiera rossa. Sarebbe stato, in realtà, il primo tentativo di insurrezione generale dell’isolaper liberarsi dell’occupante; non un’esplosione di rabbiacollettiva, quindi, ma la prima mossa di una strategia: «Si combatteva anche nelle campagne circostanti e sui monti» scrive Giuseppe Scianò, sulla pagina degli indipendentisti siciliani. Esattamente quello che avverrà a Palermo quattro anni dopo. Medici accomuna le due cose, spiegando che «il disarmo fu tentato ma risultò impossibile» riporta Scianò, da I moti di Palermo del 1866, di Magda Da Passano, con i verbali della Commissione. Il generale Quintini, mandato adar la caccia a quelle centinaia di giovani, aveva l’ordine di fare «terra bruciata». Sulla rivolta di Castellammare del Golfo, forse non si è ancora arrivati alle vere ragioni, le vere dimensioni, le vere conseguenze, le vere fonti da cui scaturì. Basti un dato, riferitodal generale Medici alla Commissione e che da solo meriterebbe indagini approfondite: al processo che si tenne su quei fatti, «di ottanta testimoni, circa settanta rimasero assassinati». Un’ecatombe! Quanto doveva esser grande la ragione occulta per una strage di quelle dimensioni? Quale verità doveva morire con quei testimoni? Lo scontro fra Surci e Cutrara, c’era eccome; gli uni e gli altri, per farsi la guerra, usavano i «viddani» (i villani: il popolino, per estensione,non solo i lavoratori poveri della terra). E qualcunoavrebbe usato Surci, Cutrara e viddani, per innescare, da lì, una rivolta che doveva incendiare l’isola, come accadde nel 1866. Ma su questo, gli indizi non sono ancora prove.L’arrivo al Sud del nuovo potere che si contrappone aquello preesistente acuisce le tensioni fra una classe dirigente più antica, storica, ma in crescente difficoltà e una che sorge sull’onda di nuove idee e va a formare una borghesia rampante, avida, audace. La separazione, ovviamente, non è così netta e il sogno di tanti nuovi ricchi è acquisire un alone di nobiltà (per questo, ripeto, la ricca nipote di Peppe Merdapiù che sposare il nipote del principe di Salina se lo compra); mentre la parte più viva dell’antica nobiltà partecipa attivamente all’elaborazione delle moderne idee politiche ed economiche; e molti pagheranno prezzi alti alle loro convinzioni. E sono ormai molte e documentate le ricerche su quanto, in quegli anni, fosse fertile, diffuso, al Sud, il dibattitosu riordino dello Stato e il rinnovamento di metodi erapporti di produzione agricola, con la nascita, favorita dai Borbone, di comitati e riviste scientifiche. Poi, però, a decidere chi ha ragione non saranno le ragioni, ma le armi.Le vicende di Castellammare del Golfo riassumono benissimo queste convulsioni (quasi il Bignami di quel momento storico) e il professor Salvatore Costanza, nel 1966, in La Patria Armata, ne fa un’analisi davvero notevole per la capacità di cogliere il fenomeno generale dal dettaglio locale.Egli mostra come le oscillazioni degli equilibri siano dovute alla diversità delle idee, ma come queste divengano occasione per sostenere interessi personali, familiari, di parte, con intrecci per matrimoni… misti fra Surci e Cutrara, che arrivano a dividere le famiglie, opporre i fratelli: Gioacchino Borruso Plaja, della principale famiglia “Cutrara”, i liberali,passa con i filoborbonici, sposando Ninfa Di Blasi,figlia del notaio Andrea, capofila dei “Surci”. L’alternanzadi poteri lo costringe a cedere il posto di cancelliere comunale al fratello Francesco Saverio, rimasto “Cutrara”, il cui figlio Giuseppe sarà il primo castellammarese a entrare nelParlamento unitario; Francesco Saverio aveva appena sostituito, come sindaco, il marito della sorella Sebastiana, Antonino Cataldo Paolino, filoborbonico, come il terzo fratello Borruso Plaja, Salvatore, marito di Maria Teresa D’Anna Gioia, di nota famiglia di “Surci”. Saranno parlamentari anche figlio e nipote di Salvatore, sino a dopo la Seconda guerra mondiale. Somiglia alla storia di Giulietta e Romeo quella di Mariano Lombardo Marcantonio, un Cutrara, e Marianna Di Blasi, figlia del capo dei Surci. E come quellastava andando a finire, considerato che quando il notaioAndrea è costretto a fuggire via mare a Palermo, dopo l’assassinio, da lui ordito, di Gioacchino Marcantonio Plaja, sulla barca c’è anche Marianna; e a inseguirli è un’altra barca, con a bordo Mariano e suo fratello. Fortuna volle che non li raggiungessero e, in seguito, i due si sposassero (ma ci pensate che è tutta roba vera, altro che Shakespeare!). È incredibile quanto Castellammare del Golfo offra la sintesidel tempo (e per questo mi ci soffermo tanto); un esempio da manuale dell’avidità che coglie l’occasione offerta dall’arrivo dei piemontesi è dato dal rapido arricchimento di Ignazio Galante, dei “Cutrara” forse il più cinico: convertito all’idea unitaria e liberale, arraffa ben trecentosettanta ettaridi terreno demaniale e di beni ecclesiastici. Egià così… Se ci aggiungete che era sacerdote, anzi l’abate (monsignor Salomone, il vescovo, lo chiamava «pietra dello scandalo»), e pure consigliere comunale, assessore, finanziatoredella marineria, gran commerciante di grano e dimosto delle grandi famiglie quali gli Ingham, i Whitaker, iFlorio, capite il tipo. E sempre di Castellammare del Golfo, sia pure trasferitosi dalla sua Messina per matrimonio, avendo sposato RosariaPilara Gioia (c’erano dei Pilara e D’Anna Gioia fra i“Surci”, filoborbonici) era nientemeno che Pasquale Calvi, uno dei capi liberali, autonomisti e mazziniani dell’isola.Un uomo di grandi ideali e solidissima cultura giuridica,partecipò all’insurrezione del 1848 e fece parte del governo autonomista presieduto da Ruggero Settimo, quale ministro alla Giustizia, Grazia e Sicurezza; nel Parlamento rivoluzionario c’era pure un altro di Castellammare, Simone Reggio. Nel 1860, con l’isola che viene ceduta a Garibaldi, Calvi è ministro dell’Interno nel governo provvisorio e capodella massoneria. «Nella qualità di presidente della Corte Suprema per la Sicilia fu “costretto” a rendere noti i risultati del plebiscito per l’annessione della Sicilia allo Stato sabaudo, dal balcone del palazzo Steri a Palermo» scrive Bianco (in 238 seggi su 292, non ci fu nemmeno un “no” e solo in 18 furono trovate schede bianche). Ma ricorda che «Calvi non esiterà a definire tale plebiscito: “Il più spudorato che la storia ricordi”. Tanto da essere considerato, dopo quest’affermazione, quasi un pentito del processo unitario. Tutto ciò farà che nonostante le importanti cariche istituzionaliricoperte, egli fosse sempre segretamente controllatodagli organi di polizia». Questa orgia di poteri, famiglie,idee, interessi e idealismi che si intrecciano, è resa esplosiva dalla presenza di bande di centinaia di ragazzi che preferiscono darsi latitanti per non indossare la divisa sabauda: «Megghiu porcu ca surdatu» si diceva: meglio porco che soldato.Ecco, questa, ridotta all’osso, la situazione, quando scoppiala rivolta di Capodanno 1862. La liberazione di stamposabaudo, se da una parte aveva portato alla radicalizzazionedella frattura fra i possidenti, Surci e Cutrara, dall’altra, conl’imposizione del servizio di leva obbligatorio, aveva acuitoquella fra ricchi e poveri e trasformato questi ultimi in criminali.Chi aveva mezzi, infatti, comprava l’esenzione dall’obbligo,con una cifra stabilita per legge; chi non se lo potevapermettere, aveva la scelta fra sottomettersi, sottraendo allafamiglia le sue braccia per cinque anni, quindi una condannaalla miseria, alla svendita dei pochi beni, ove ce ne fossero,del pezzo di terra (un ulteriore affare per i possidenti,Surci o Cutrara che fossero), o divenire latitante e, a quelpunto, arrangiarsi (non capivano che la leva era «tutta avantaggio dei figli del popolo, che partono automi dallacampagna e tornano uomini» scriveva un militare, VincenzoMaggiorani, in una sua cronaca della rivolta del ’66, Il Sollevamentodella Plebe di Palermo. Peccato che quando quellitornano non trovano più la campagna, che i genitori hannodovuto vendere. I figli di papà, invece, pagando evitavano laleva e forse diventavano uomini lo stesso). Quei giovani cheda contadini venivano ridotti a braccianti e poi costretti adiventare “briganti” formavano bande che scorrazzavanonei dintorni dei centri abitati da cui avevano dovuto allontanarsi.Alcune di quelle «comitive», come erano anchechiamate, erano formate da diverse centinaia di latitanti; e iloro capi talvolta divennero miti, come Pasquale Turriciano,lui pure di Castellammare del Golfo, cui venne dedicato unpoema: «Disirturi pi nun fari lu surdatu / Chist’omu fu diveru risolutu / Tanti picciotti si misi allatu / Chi di tutti erabenvolutu». Quelle bande che erano forza lavoro divenneromassa di manovra, e massa armata, per i possidenti in guerrafra di loro e che potevano creare debiti di riconoscenza,fornendo ai giovani alla macchia riparo nelle loro tenute,cibo, favori per i familiari, in qualche caso impunità. Queilatitanti facevano comodo a molti, specie alla mafia che sistava assestando e aveva interesse alla formazione di un ampiobacino di sradicati cui poter attingere.Il 1° gennaio 1862, alle 15, l’ora del pranzo che sta perterminare, i latitanti scendono in città. Tre settimane primac’era stato uno scontro verbale, in strada, fra Cutrara e Surcie Mariano e Marianna si erano vantati di poter disporre dialmeno quattrocento armati. Arrivarono davvero. Gli Asaroe i Borruso avevano monopolizzato il potere: tutto ai Cutrara,tutto solo a loro. Erano nella casa di Bartolomeo Asaro,quella da cui si era affacciato Garibaldi per salutare la popolazione(il che bastò a dare il nome alla via); e a quella fudato l’assalto e fuoco, dopo linciaggi e saccheggio. In queimomenti, l’esistenza di relazioni forti, palesi o occulte, con icapi del campo avverso, segnò la vita di alcuni, la morte dialtri. Francesco Borruso, ucciso a pugnalate, scempiato conle pietre, fu bruciato; sua figlia Francesca, nella casa espugnatae data alle fiamme, sale sul tetto, abortisce per la pauradue gemelli morti, da giù le sparano. Aveva 26 anni; ilmarito Girolamo Asaro, 24 anni, chiede pietà, ma il notaioDi Blasi avrebbe detto di procedere: lo ammazzano a coltellatee fucilate; Bartolomeo Asaro, 49 anni, è spinto ancoravivo nelle fiamme. «Fuori la leva, morte ai Cutrara!» era ilgrido dei rivoltosi e Bartolomeo Asaro era il commissario dileva, potentissimo; Francesco Borruso, idem, il comandantedella Guardia nazionale, che del commissario doveva far rispettare(o ignorare…) le direttive. La sera viene attaccataanche la casa dei Galante, che riescono a fuggire, tranneuno, Antonino, preso e sgozzato: si sarebbe salvato se le sorellegli avessero aperto la porta della casa in cui loro si eranorifugiate. Non lo fecero.Gli altri Cutrara scappano o sono fatti scappare, ma vengonoassalite le case di Calandra, del sindaco GiuseppeMarcantonio Coniglio, del delegato Gaspare Fundarò, delprete Antonino Zangara (i preti son tutti liberali a Castellammaredel Golfo, meno uno, Benedetto Palermo Pilara,che sarà ucciso dai piemontesi) e di molti altri «di civile condizione».Ci fermiamo un attimo? Avete letto La Storia, diElsa Morante? È lì che vorrei farvi guardare, ora: potenzeinternazionali, per rafforzare e ampliare i propri interessi,ridisegnano il mondo adeguandolo alle esigenze di una rivoluzione,quella industriale, che genera una nuova economiaper il pianeta. Questo, da noi, porta alla nascita di un Paeseunico, mettendo insieme, con aggressioni militari e plebisciti-farsa, gli Stati in cui è divisa la Penisola. I rivolgimentiradicalizzano lo scontro fra le fazioni, e a Castellammare delGolfo, come ovunque questo accada, selezionano una classedirigente violenta e avida: quella che risulta vincente nelloscontro fra i potentati locali che c’erano già e quelli emergenti.Il nuovo deve ancora costruire, il vecchio viene demolito,a rimetterci è chi traeva pane e sicurezza da quel chec’era e perde tutto, nella fase di passaggio, senza poter ancoraattingere a quel che ci sarà (se ci sarà. Infatti, non ci fu oci fu poco, tant’è che i meridionali dovettero andarlo a cercarealtrove, il pane perso, emigrando per la prima voltanella loro stra-millenaria storia. Perché lo dico sempre? Perchétroppi, troppo a lungo, hanno omesso di dire perché).La storia viene raccontata come gesta dei grandi, ma procedemacinando vite dei piccoli, ignoti. La storia di Useppe, seavete letto La Storia. A Castellammare del Golfo, un’interagenerazione che mirava al lavoro dei suoi padri (inclinando,come popolo, verso i potentati locali che meglio garantivanopane), prima con la guerra, poi con l’assurdità della levaobbligatoria per almeno cinque anni, e a cui i ricchi potevanosottrarsi soltanto perché ricchi, perse lavoro, libertà (liberialla macchia e inseguiti dai militari non è essere liberi)e futuro. Tutto il peso di quelle convulsioni storiche andòad abbattersi sulle spalle dei più deboli (al solito). Una devastazionedelle vite dovuta al nuovo potere identificato coni possidenti che ne traevano i maggiori vantaggi. «L’odio deicontadini e di una parte degli strati intermedi della società(bottegai, artigiani, borghesi) contro il ceto dei civili fuall’origine della sanguinosa sommossa del ’62, la quale, tuttavia,trovò la sua causa immediata e scatenante nell’opposizionealla leva militare» riassume Salvatore Costanza in LaPatria Armata. Il senso di ingiustizia patita, le privazioni, lapaura, la fame e la fatica delle notti in fuga, l’età dell’amorenegata, la famiglia impossibile da costruire e il non poterprogrammare il proprio domani, se non di qui a qualchegiorno… Una rabbia immensa fu accumulata; e condividerlacon tanti altri, centinaia e centinaia solo del tuo paese, l’aumentava.E anche quella rabbia, figlia di tanta ingiustizia, fuusata contro di loro e per gli scopi dei potenti. I Cutraranon vennero uccisi, ma dilaniati, arsi, schiacciati con le pietre.Il dolore e il male subiti da tanti e così a lungo furonoliberati tutt’insieme, contro pochi obiettivi e in poche ore.Il male è incomprimibile: è quello di prima, cambia soloforma quando viene restituito. Alla fine, quelle centinaia digiovani, la popolazione partecipe o succube, le vittime diieri divenute carnefici di oggi, i signori sfuggiti a un destinoche pareva già segnato, implorando la pietà dei loro servitori…tutti, finita la mattanza, esausti di paura e sangue, a sera,incredibilmente, «andavano in processione alla ChiesaMadre a chiedere perdono alla Divinità offesa! Grottesco etragico insieme, fuori da ogni schema in un patetico tentativodi collettiva legittimazione morale» scrive FrancescoBianco.Poi, la repressione.Contro gli insorti accorsero militi a cavallo, carabinieri,soldati. La battaglia durò tre giorni e, dal poco che se ne sa,si ha l’idea di una ritirata combattendo della banda di renitenti,respinta prima dalla città, poi dai borghi intorno, sinoai rifugi, infine, fra i monti Inici e Sparacio. Del numero deiribelli ammazzati, si sa ancora meno, le sole notizie riguardanouno non identificato e la fucilazione di don BenedettoPalermo Pilara, preso con le armi (dicono) e sospettato quale«ufficiale di collegamento» con i rivoltosi, prima del loroingresso in città (ma che cavolo di preti avevano a Castellammaredel Golfo?). Mentre, sino in Parlamento si disseche i sei fatti fucilare dai bersaglieri del generale Quintininon c’entravano niente e non si capiva perché li avesseroammazzati: forse, fu una rappresaglia, una di quelle “punizioniesemplari” cui tanto spesso ricorrevano i liberatori,che quando non sapevano che pesci prendere, sbattevanoqualcuno al muro e lo facevano fuori, in modo che fossechiaro chi comanda. Naturalmente, il «Giornale Officiale diSicilia» (che già l’anno prima parlava delle esecuzioni sommariedi prigionieri) scrisse che «sei colpevoli, presi collearmi alle mani e in atto di far fuoco contro le truppe, furonotrucidati». Fra loro, due settantenni, una cieca di 30 anni,uno storpio di 45, una zoppa di 50 e Angelina Romano, chenon aveva ancora 9 anni, ma forse sapeva già sparare…?Bianco pensa che sia stata uccisa per errore; altri, perchéaveva assistito all’ingiustificato assassinio dei cinque malcapitatio solo perché era nel posto sbagliato al momento sbagliato.La morte di Angelina viene riscoperta in piena stagionedi recupero della storia taciuta sul modo in cui fuconquistato il Sud. Si è ritrovata nel libro parrocchiale l’annotazionedella sua fine, fatta in ritardo dal prete, perché gliera stato proibito di segnare nomi e numero dei morti; loscrisse in latino: «Romano Angelina filia Petri et Joanna Pollina…interfecta fuit a militibus Regis Italiae», fu uccisa daisoldati del re d’Italia (a scuola, si dava da tradurre: «Hectorinterfectus fuit ab Achille». Ma erano altri tempi). Nel 2012,Antonio Ciano, fondatore del Partito del Sud, in quel momentoassessore alla toponomastica di Gaeta, decide di dedicareuna via alla bambina, che diviene un’icona della brutalitàcon cui si impose il disegno unitario. E altri Comunine hanno seguito l’esempio. La storia viene riscritta suimuri: da Mestre a Palermo, le “via Cialdini” vengono soppresse.A Lamezia Terme, il 19 marzo 2016 “via Cialdini” èdiventata “via Angelina Romano”: dal carnefice alla vittima.Per lei sono state scritte canzoni, fatte conferenze, manifestazioni.Lina La Mattina, poetessa in siciliano, per Angelinascrisse una ballata nel 2012: «’Nta li strati e li chiazzid’ogni paisi / scritti a littri di focu s’avissi a canusciri / lunomu e la storia di Ancilina Romano […] Cri cri cri… quantufimmini chi ci su / Cri cri cri… tri voti tri uguali a novi /quantu eranu l’anni so’ […] Cri cri cri – chiù nun canta Ancilina».Ma qualcosa non quadra nel racconto della repressione:il conto dei caduti fra i militari e altri armati intervenuti asoffocare la rivolta è alto: il comandante dei militi a cavallo,un milite, il comandante della stazione dei carabinieri di Castellammare;poi un capitano (decorato in Crimea) e settesoldati semplici, più undici feriti. Il numero dei feriti, di solito,è molto più alto di quello dei morti, qui è uguale: vieneil sospetto che siano stati contati solo quelli gravi (normalmente,e se ne può facilmente intuire il perché, il numerodei feriti è di molte volte, in certi casi decine, maggiore diquello dei morti; anche perché rispetto alle parti del corpoche possono essere colpite senza uccidere, quelle letali sonomolto meno). Ma questi dati fanno pensare che fra gli insorti(tanto peggio armati, non addestrati, con un’organizzazioneimparagonabile a quella di formazioni militari) ci dev’esserestato un massacro. Se si confronta il numero di soldaticaduti nella guerra al Brigantaggio con quello dei ribelli ammazzati,si vede che il rapporto è di almeno un ordine digrandezza superiore; vuol dire che se i soldati muoiono acentinaia, i briganti muoiono a migliaia. In base a tale criterio,gli undici morti e gli undici feriti fra i militari nei tregiorni di scontri che pure sono detti «cruenti» da Bianco,dovrebbero essere un indizio forte di perdite fra i rivoltosiche superano il centinaio. E tutti avevano interesse a nasconderlo:lo Stato, perché non si sapesse quanto poco graditaera la libertà sabauda in Sicilia; i parenti delle vittime edei feriti (pure nascosti), per non essere coinvolti nelle ferocimisure di repressione. E poi, la fonte prima delle notiziesulla vicenda è il racconto del contemporaneo dottor GiuseppeCalandra, che teneva per i Cutrara ed era nemicoacerrimo di Di Blasi; per cui sappiamo molto di quel chefecero gli insorti; e niente di quel che fecero agli insorti.Michele Antonino Crociata, storico contemporaneo di Castellammaredel Golfo, che, come tesi per la sua laurea, ricostruìla vicenda, nel 1969, tornando a consultare i manoscrittidi Calandra, in La rivolta contro i «Cutrara» aCastellammare del Golfo, pubblicato nel 2013, mostra chequel primo cronista dei fatti cercò di provarne «l’ispirazioneborbonica» e particolarmente «le preponderanti responsabilità» di Di Blasi, perché «non dovette correre mai buonsangue» tra «il Calandra, medico liberale e “cutrara”, e il DiBlasi, notaio borbonico» che da umili origini era diventatoricco e potente, ma precipitò poi «nella povertà per nonaver operato a favore dei Savoia e per essersi trovato dallaparte dei vinti».
