GIULIO CASALE STA DALLA PARTE DEL TORTO
Alla scoperta del cantautore trevigiano, che viene definito il nuovo Giorgio Gaber. E piace moltissimo. “Bisogna lasciare la ragione agli altri perché questo li consola del non avere altro” diceva André Gide. L’ego domina questo nostro povero e dissennato mondo. Basta accendere la tv e avere la sventura di inciampare in un qualsiasi talk politico per comprendere che nel marasma generale ha sempre la meglio chi alza la voce col ditino puntato. Tutti vogliono aver ragione. Anche se poi si sa, la ragione è dei fessi! Noi che da fessi ci vestiamo per non andare in guerra portiamo alta la bandiera di socratica memoria: sappiamo di non sapere. E seminiamo dubbi. Continuando a stare dalla parte sbagliata. Che è quella degli ultimi, di coloro i quali si nascondono tra la folla con le mani in tasca e una sigaretta sgualcita tra le labbra. Che è la parte di chi vive, o sopravvive, spazzolando la propria storia contropelo. Che è la parte di chi non ha diritti ma solo doveri. La parte di chi non ha voce. E sta sempre dalla parte del torto. Dove poi, parafrasando Brecht, risiedono quasi sempre le ragioni migliori. Illustre compagno di questo metaforico viaggio è il cantautore Giulio Casale, poliedrico e raffinato artista trevigiano che negli ultimi sette anni ha girato l’Italia in lungo e in largo col suo teatro-canzone. Eccellente erede del grande Giorgio Gaber. Il suo ultimo successo è “La febbre”, spettacolo di prosa cantata tratto dall’incontro dei suoi monologhi con i brani del nuovo disco di inediti che si intitola, appunto, “Dalla parte del torto”. Un’opera che grida il silenzio della solitudine che accompagna la nostra epoca e che vuole disturbare per dare ed essere speranza. Sono solo canzonette, dirà qualcuno. Ma per alcuni – pochi, pochissimi forse – sono il seme di una pacifica rivoluzione, che non si può e non si deve più rimandare. Dopo sette anni di intensa attività teatrale e letteraria torni al tuo primo amore: il rock. Cosa ti ha spinto a rientrare sulla scena musicale? «Il disastro culturale e quindi socio-economico che ne consegue. Perché quando sei nel disastro e vuoi uscirne vivo e sentirti vivo mi sembra molto difficile riuscire a farlo stando seduti suonando una chitarra acustica o un pianoforte gran coda. A me sembra difficile, poi magari qualcuno riesce a farlo benissimo e io posso essere un suo fan. Ma a me capita invece di essere talmente coinvolto fisicamente nella rabbia, nell’ansia di cambiamento e nel desiderio di condividerla con più persone possibili che il modo più diretto e più autentico che io conosco è quello di prendere in mano una chitarra elettrica per condividere un’esigenza fisica di cambiamento. E il rock è un’esigenza fisica di cambiamento e di miglioramento delle condizioni di vita per tutti, soprattutto per le minoranze e soprattutto per quelli che stanno dalla parte sbagliata della barricata». Infatti il tuo nuovo album è dedicato a quei “pochissimi che credono nella canzone”. Ma chi è che sta “Dalla parte del torto”? «Rispetto alla canzone, quelli che stanno dalla parte del torto sono tutti quelli che ancora oggi chiedono alla canzone di essere tutto quello che ho detto fino adesso. E cioè che dentro a una canzone ci sia quel desiderio di vita nuova condivisa. E siamo rimasti in pochissimi a farlo. Questo perché l’industria musicale e i mezzi di comunicazione hanno contribuito ha far diventare la musica quello che è sempre stato ma mai così poco, cioè un sottofondo, un intrattenimento puro, la colonna sonora di momenti totalmente superficiali. E mai più la grande forza rivoluzionaria che la musica aveva negli anni Sessanta e Settanta. Io sono sufficientemente giovane per ricordare che aria tirava in quegli anni. Alla musica si chiedeva tanto. Alla canzone e al cantautore si chiedeva veramente tanto. La musica sicuramente non cambia il mondo. Ma io comunque glielo chiedo alla canzone. E chiedo alla canzone di parlarmi, innanzitutto». Dove ti porta la tua “resistenza rock?” «Nella direzione di essere intero, di essere uno. E che per esempio non ci sia scissione tra la mia parte pubblica e la mia parte privata. Molti miei colleghi sono persone splendide nella vita privata e poi nella vita pubblica si comportano da uomini di potere e di successo e per me quello è imperdonabile. Se sei uno che ha dei valori li esprimi anche con la tua musica. Forma e sostanza. La mia resistenza rock è invocare un altro orizzonte per tutti, più equo, più solidale, più dolce, più gentile. E per dire questo devo essere aggressivo. Devo avere il distorsore sul pedale della chitarra elettrica». «Nina è una delle tantissime donne che sono vittime di violenza familiare. E’ una storia, è un corpo, è una persona non è un personaggio. E’ una storia vera. Siccome si finisce sempre per fare molta filosofia e poca pratica allora è bello che ogni tanto un artista racconti la storia di qualcuno e non delle sue seghe mentali. Io alla fine della canzone chiedo quasi scusa a Nina per aver osato parlare di lei. Le dico che almeno ti accompagni il suono di questa mia canzone, perché forse il suono ti renderà un po’ più dolce questa fuga, questo dover andare via da tuo padre, che è la persona che ti ha messo al mondo. Quella canzone per me è una carezza. Per Nina e per tutte le donne vittime di violenza». Il tuo nuovo album si apre con “La tua canzone” e termina con “La tua canzone#9”. Sembra quasi un cerchio che si chiude. Dov’è l’inizio e dove la fine? «L’importante è non chiudere il cerchio. Ci sono molti piani di lettura nelle mie cose. Ma è nella vita che ci sono molti piani di lettura. Tu fai un’opera e apparentemente si chiude. Ma già nel fatto che io abbia scelto di aprire la stessa canzone con un arrangiamento completamente diverso o viceversa di chiudere il disco con la stessa canzone con un arrangiamento completamente diverso, secondo me questo fatto dice mai che il cerchio non si chiude mai. Il senso è tutto lì. Non sono arrivato da nessuna parte, non mi sento nessuno, non mi sento niente. Però ci sto provando. Continuiamo la ricerca, continuiamo la metamorfosi, assecondiamo le nostre mille metamorfosi quotidiane anziché voler essere coerenti nel senso peggiore della parola e cioè rigidi, chiusi, quelli che hanno capito tutto e che stanno dalla parte giusta. No, noi stiamo alla parte sbagliata. Siamo quelli che non abbiamo ancora trovato la risposta ma ostinatamente la cercano». Gli ultimi anni ti hanno visto particolarmente impegnato nel teatro-canzone. E’ una strada che tornerai a percorrere o il tuo futuro è in musica? «Il mio futuro… Se si dovesse chiudere un cerchio io lo chiuderei portando queste canzoni e questo modo di concepire la musica a teatro. Quello sarebbe il cerchio che si chiude artisticamente. E’ un sogno che prima o poi cercherò di realizzare. Ma siccome è sconsigliatissimo dallo show-business a maggior ragione cercherò i realizzarlo. Perché nessuno vuole produrre uno spettacolo rock a teatro. Io non sto parlando di fare un concerto a teatro. Sto parlando di fare uno spettacolo teatrale con la drammaturgia, con la regia con le luci che possa far parte delle stagioni di prosa in quei migliaia di teatri meravigliosi di cui l’Italia gode come patrimonio artistico e culturale. E’ quello il luogo della rivoluzione». Qual è l’insegnamento che ti ha lasciato Fernanda Pivano? «Che ogni artista deve lavorare per la bellezza e non per guadagnare posizioni predominanti sulla società. Quella può essere soltanto una lontanissima e malaugurata coincidenza o conseguenza. Ma quello che ti deve muovere è la ricerca estetica fine a se stessa. Meglio, diceva Nanda, se in questa ricerca dentro c’è un vero spirito libertario, anticonformista, pacifista e non violento in tutti i sensi del termine. Tutto questo io lo tengo molto stretto in ogni gesto. So che non ci devo più pensare. Perché dieci anni di dialoghi con Fernanda Pivano, e una mia attitudine istintiva prima che culturale, mi hanno definitivamente confermato questi principi come indiscutibili. Sono dei fari, delle utopie forse, dei riferimenti utopici che però oramai fanno parte del mio corpo».
