NEOLOGISMI NECESSARI. NON ABBIAMO PAURA DI CHIAMARLO FEMMINICIDIO

NEOLOGISMI NECESSARI. NON ABBIAMO PAURA DI CHIAMARLO FEMMINICIDIO

Emerge nuovamente dalle cronache un episodio la cui sequenza ci è ormai tristemente nota: lei la vittima, lui il carnefice. L’incontro, il colpo di fulmine, l’inizio della relazione, probabilmente sotto i migliori auspici. Poi la degenerazione. Quel qualcosa che accade, non si sa bene come, non si sa bene quando, ma certamente entro le mura domestiche, o comunque entro quelle mura che entrambi si sono costruiti, in una complicità più o meno consapevole, con il comune obiettivo di sottrarre la realtà agli occhi del mondo esterno. Una realtà fatta di violenze invisibili, inanellate una dietro l’altra fino a diventare palesi, a tal punto da spingere la donna a denunciare e far sì che il suo carnefice venga allontanato. La separazione, dunque, poi il processo, infine l’arresto. Lo sconto della pena, la scarcerazione e poi la vendetta. Lucida, premeditata, calcolata fino all’ultimo dettaglio e covata in quei due anni di reclusione o -chissà- forse anche da prima. E poi la tragedia che pone fine all’intera vicenda. Sembra un film dell’orrore, ma è realtà; una realtà che ci viene quotidianamente sbattuta in faccia in una sequenza che si presenta sempre uguale a se stessa, sempre con la stessa dinamica, sempre con gli stessi protagonisti. Possono cambiare i nomi, i luoghi, le tempistiche. Ma il racconto è sempre quello. Come sempre uguale rimane il commento del benpensante di turno che, stringendo quelle pagine fra le mani, si pone domande circa l’utilità del neologismo: “Perché porre questa inutile categorizzazione? È un omicidio a tutti gli effetti, a cosa serve chiamarlo femminicidio?” Serve eccome. È una distinzione fondamentale, atta a far sì che episodi come quello appena raccontato non cadano nel calderone di tutte le altre – altrettanto gravi – tipologie di delitto. Non dar loro una precisa collocazione, a partire quindi dalla parola con cui vengono identificati, sottrae strumenti a una ricerca che diviene sempre più urgente. Secondo lo Zingarelli, si definisce femminicidio: “Qualsiasi forma di violenza esercitata sistematicamente sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di perpetuarne la subordinazione e di annientarne l’identità attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico, fino alla schiavitù o alla morte”. È altrettanto sbagliato, quindi, definire “femminicidio” qualsiasi tipo di omicidio al femminile: se una donna, ad esempio, viene assassinata durante una rapina in banca, è sbagliato parlare di femminicidio, e diviene più corretto, in questo caso, parlare di omicidio. La tipologia di fenomeni a cui viene attribuito il neologismo presenta dei connotati ben precisi: oltre al sesso della vittima, un elemento comune è l’identità dell’assassino, quasi sempre il partner quando non l’ex. Altrettanto importante anche lo studio del movente: spesso sono episodi che avvengono in seguito a una separazione o a un tentativo di allontanamento. Una ribellione da parte della vittima, spesso seguita da una nuova libertà, che si traduce talvolta in una nuova relazione o comunque una presa di autonomia, un tentativo di ricostruzione di una propria vita. Torna, allora, utile, la definizione dello Zingarelli, che parla giustamente di “sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale”, che non accetta l’idea di una donna libera e indipendente e la riconosce solo nel ruolo di moglie e madre. Sono sovrastrutture così radicate nella nostra cultura, che diviene difficile perfino riconoscere i portatori di simili idee: grazie a decenni di lotte femministe, oggi le donne possono guidare, votare, lavorare. Possono chiedere il divorzio, come anche decidere della loro vita. Un uomo che rivendichi un “ritorno ai fornelli” risulterebbe quasi ridicolo, o quantomeno anacronistico. E allora, se una volta era facile riconoscere “il nemico” perché certe dichiarazioni non risultavano nemmeno obsolete, oggi diviene ancora più difficile: occorre riconoscere la parola stonata dietro il discorso bello; la provocazione fatta “non così tanto per gioco”; l’abbraccio forse troppo soffocante, il complimento eccessivo, la battuta fuori luogo. Il lavoro è sottile, la sensibilità da mettere in gioco tanta, in quanto sono elementi, segnali apparentemente privi di senso, ma che giorno dopo giorno instillano insicurezza, smorzano l’autostima della vittima, con il fine di “perpetuarne la subordinazione, annientarne l’identità attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico”. E dunque, prima che sia troppo tardi, occorre cogliere la violenza invisibile, che se non fermata in tempo rischia di diventare manifesta, attraverso la messa in gioco di una sensibilità del corpo che lancia continuamente piccoli segnali d’allarme che non vanno sottovalutati. Si è parlato di raptus di gelosia, di possesso; termini abusati dai mass media che fanno passare il gesto violento come conseguenza di un amore “così forte da divenire cieco”. La confusione è tanta; orientarsi e rifiutare certe definizioni necessario, poiché sono proprio queste le prime cause di un pensiero distorto che porta a una tacita accettazione di quanto andrebbe istantaneamente rifiutato da ambo le parti. Ma l’entrata in vigore di un nuovo termine diviene, ancora una volta, sintomo di un’inversione di tendenza, di una presa di coscienza che qualcosa deve cominciare cambiare. E allora, non abbiamo paura di chiamarlo FEMMINICIDIO.