S. BENEDETTO: RICORDI DELLE LANGHE DI FENOGLIO

S. BENEDETTO:  RICORDI DELLE LANGHE DI FENOGLIO

«A San Benedetto si parlava sempre d’Alba quando si voleva parlare di città, e chi non n’aveva mai viste e voleva figurarsene una cercava di figurarsi Alba. Bene, stavolta l’avrei vista e ci avrei camminato dentro, e quella fosse pur stata la prima e l’ultima volta, io avrei poi sempre potuto entrare in ogni discorso su Alba e mai più provare invidia per chi l’aveva vista e si dava delle arie a discorrerne» Erano anni che non rileggevo La malora, di tutta l’opera fenogliana è il romanzo che più mi ricorda mio nonno e evoca il mio essere stato, su per quelle colline, con lui, bambino.Ci sono i racconti degli anni poveri di mio nonno, nato nel 1923, quando ai ragazzini toccava andare servitori – in una condizione molto simile alla schiavitù – ai mezzadri, cioè a contadini che gestivano le cascine di proprietari ricchi, di solito di città – anch’essi, i mezzadri, trattati pure loro appena sopra a schiavi.Ci sono i racconti di sensali, mediatori che organizzavano le nozze tra ragazzi e ragazze di colline opposte, di paesi diversi, negoziando la dote, che venisse disposta dalla famiglia della sposa e accettata dalla famiglia dello sposo.C’è il lessico, ci sono le parole, «bagascia» dice il marito alla moglie, le donne erano «bagasce» quasi a prescindere.C’è San Benedetto, che è un paese dell’Alta Langa, e, come in esergo a questo post, la citazione, lassù Alba non si conosceva: si figurava.C’è la preghiera, a Dio, alla Madonna, ci sono i pensieri magici, le credenze, antidoti all’inesorabilità del destino che si manifestava soltanto con la sfiga, le malattie, il raccolto distrutto dalla grandine, con la malora.Era povertà vera: che divenne letteraria tanto più ce ne si allontanava. Mio nonno disse sempre che non avrebbe cambiato un giorno dei suoi recenti, di quando c’ero anch’io, con uno di quando era giovane, non c’è nessuna età dell’oro, non ci sono i canti tutti assieme per le vigne, contrapposti all’individualismo della modernità, non era più bello «una volta», per lui «una volta» significava mangiare bucce di patate nei letamai, significava la guerra, avere freddo, un’acciuga slabbrata da decine di strofinate con le fette di polenta, egli fu povero vero e la miseria vera è a-letteraria. «Non aver vergogna a parlare coi cittadini. Sono bestie come noi», dice Tobia il mezzadro ad Agostino il servitore, ragazzino, nella sua prima volta ad Alba. Mio nonno aveva un esagerato rispetto, quasi un timore, sì, la reverenza affettata, verso gli avvocati, gli ingegneri, i notai, i medici, i professionisti insomma con cui si trovava, anche dopo la guerra, a parlare. Il medico che fu chiamato per far nascere mia madre arrivò in ritardo perché dovette accertarsi delle referenze che il locandiere di Cossano Belbo gli aveva fornito via telefono (e arrivò un’ostetrica, che non s’accorse di mio zio gemello, che morì). Questo c’è in me, questa è l’aria che ho respirato. I pranzi per San Giovanni, l’onomastico di mio nonno, a San Benedetto Belbo. «Nonno, questo è il paese di Fenoglio!», dicevo, e lui sorrideva: «Lo scrittore», sotto quei baffi che per un certo periodo ha portato, che erano neri quando mia mamma si sposò, quel sorriso diceva che le storie che leggevo in Fenoglio erano quelle che mi raccontava lui cioè quel che davvero si viveva su quelle colline, prima della guerra, durante la guerra, per un decennio almeno anche dopo la guerra. Le Langhe uno non se le toglie mai di dosso, anche se, anzi soprattutto quando, fanno soffrire. Mi sono fatto del male e sono andati a leggere i risultati delle politiche del 1979 e li ho confrontati con le europee del 26 maggio. Ho scelto un paese dei tanti – sono incredibilmente omogenei tutti – un paese che mi ricorda i viaggi verso il mare, dalle colline, basso Piemotne entroterra ligure una faccia una razza, quand’ero bambino: Gorzegno, nell’alta Langa senza il vino, da dove partivano comunque, e forse partono, pullman per la Ferrero, a metà della notte per essere in fabbrica per il turno delle 6. Il 3 giugno 1979 a Gorzegno votano in 383 su 402 aventi diritto, il 95,27%, la Dc prende il 58,79%, il Pci il 14,01, il Pri l’11.26, il Psdi il 6,04, il Msi lo 0,55%. Il 26 maggio di quest’anno hanno votato 181 persone su 280, il 64,64%, e la Lega ha preso il 55,56%. Il Pd il 13,07, M5s e Forza Italia 9,80, Fdi 4,58. In questi giorni un amico ha postato la foto di una sagra di paese. Le sagre di paese le ho sempre amate, ma per la prima volta il sorriso a guardar la foto si è rotto a metà. Questa è l’Italia che ha paura, che tollera l’odio, che giustifica la violenza verbale, questa è la provincia che non riconosco più. Ce l’ho dentro ma la sento estranea, una parte aliena, che non mi rende più felice, che mi rovina i pensieri del tempo dell’infanzia e dell’adolescenza, quando alle sagre ci andavo con mio nonno e ridevamo, con i contadini che pur con tutti i difetti il nero lo odiavano davvero – l’antifascismo nelle Langhe era davvero nella carne e nella pelle – e adesso invece tollerano, riducono, quando non ammiccano, gli sorridono, lo provano.