VINCENT LAMBERT. IL CONFLITTO TRA DUE RAGIONI
Luigi Manconi1 h ·Il conflitto tra due ragioni.la RepubblicaL’infermiere francese Vincent Lambert, quarantatre anni, da undici in coma e, poi, in stato vegetativo, ignora quanto accade intorno a lui. E non verrà mai a sapere che la sua vicenda è tra quelle che il pensiero giuridico più saggio definisce “scelte tragiche”. Ovvero le decisioni da assumere quando sono in conflitto non una presunta ragione e un presunto torto, bensì due ragioni. E, dunque, due diritti entrambi meritevoli di tutela. In una società complessa com’è la nostra, queste “vertenze senza soluzione” tendono a moltiplicarsi. Un esempio viene offerto dalla storia dell’Ilva di Taranto che mostra crudelmente la tensione, tuttora irrisolta, tra due valori costituzionalmente protetti: il diritto al posto di lavoro e il diritto alla tutela della salute. Altrettanto arduo è il bilanciamento tra la garanzia della più ampia libertà di espressione e l’obbligo di proteggere la reputazione individuale o l’intangibilità di alcune tragedie storiche, come i genocidi. Nel campo delle scelte mediche sulle questioni di fine vita, il dramma di Vincent Lambert ripropone il conflitto tra due beni degni ugualmente di tutela: quello dell’inviolabilità della vita e quello del morire con dignità. È già accaduto nel caso di Terri Schiavo e di moltissimi altri, anche nel nostro paese. In genere, nelle situazioni citate, secondo le opinioni più equilibrate è scorretto parlare di eutanasia. Siamo in presenza, piuttosto, di rifiuto dell’accanimento terapeutico, di sospensione delle cure, di accelerazione del processo che porta a una morte non evitabile. In ogni caso, sembra davvero improprio e sottilmente blasfemo che, intorno a quelle vicende, si formino schieramenti ideologici, fazioni politiche, cortei confessionali. Sono necessarie, invece, la massima comprensione delle ragioni dell’altro e una autentica compassione per noi tutti: per i morenti e per chi resta. Sono scelte tragiche, appunto, per l’ulteriore motivo che tutte generano dolore, in quanto legate alla coscienza della finitezza dell’esistenza e dell’irreparabile imperfezione delle risorse fisiche e psichiche. E’ questa consapevolezza che mi impedisce di dirmi un “militante dell’eutanasia”. Sono piuttosto un tremebondo sostenitore della sua ineluttabile necessità in situazioni estreme e a condizioni tassativamente definite. Ma qui, va ribadito, si tratta d’altro: di interruzione delle terapie quando la loro persistenza si riveli inefficace e si traduca in una forma di vano accanimento. Ma anche una circostanza simile può determinare valutazioni opposte. Si pensi al fatto che, sulla decisione di sospendere l’uso del sondino che consente a Lambert la sopravvivenza, una lacerazione attraversa la sua stessa famiglia, tra i genitori contrari e la moglie e i fratelli favorevoli. Il bioeticista Emmanuel Hirsch, intervistato da Avvenire, è d’accordo con i genitori e rifiuta di considerare “la capacità di una relazione e di una comunicazione razionale come l’indicatore essenziale del diritto di vivere”. Diversa l’opinione di Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto Mario Negri, che nel suo “La scelta” (Sperling & Kupfer , 2015) così scrive: “la percezione di sé e dell’ambiente” può manifestarsi solo in quei pazienti in stato vegetativo persistente, non necessariamente irreversibile e della durata inferiore all’anno. Se il malato “resta in stato vegetativo per molti mesi, un anno o più, allora lo stato vegetativo si chiama permanente e l’unica evoluzione possibile è la morte”. È il caso, appunto, di Lambert, da undici anni in condizione di incoscienza. Come si vede, la controversia non può essere risolta appellandosi in via esclusiva alle ragioni della scienza: interviene, inevitabilmente, la valutazione soggettiva che discende da diverse culture antropologiche e da differenti concezioni dell’esistenza e del suo senso ultimo. Non mi riferisco alla polemica, superabile, sulla“vita degna di essere vissuta” perché, su questo, qualcosa insegna la pastorale cattolica che rimprovera a un certo laicismo di misurare quel “degna” esclusivamente in base a criteri economicistici, agonistici e salutisti, a motivo di una interpretazione dell’esistenza come prestazione e produzione. Il dilemma resta tutto da indagare: c’è vita in assenza di relazione? E qual è il termine che una ostinazione ragionevole può porle? Sono domande rivolte a tutti, non credenti e credenti. Tanto più se si torna con la memoria a quanto affermato da Pio XII già nel 1957: «l’uso dei narcotici per morenti o malati in pericolo di morte è lecito anche se l`attenuazione del dolore renderà più breve la vita». Queste parole così anticipatrici non fecero scandalo allora e vengono trascurate oggi dalle stesse gerarchie ecclesiastiche. Forse perché pronunciate nella lingua latina e, dunque, interdette ai più.
