BALCANI LACERATI: MACEDONIA IN DIREZIONE NATO, MENTRE PUTIN VA A BELGRADO

BALCANI LACERATI: MACEDONIA IN DIREZIONE NATO, MENTRE PUTIN VA A BELGRADO

Arrivano distinte le notizie, come si trattasse di mondi differenti. L’Ansa ci segnala, a distanza ravvicinata, due eventi apparentemente distanti tra loro. Ad Atene Tsipras ha ottenuto la fiducia richiesta dal Parlamento e dovrebbe tenere botta fino alle elezioni di ottobre (151 voti su 300). A Belgrado c’è fibrillazione per la visita di Vladimir Putin, accolto con gli onori e le precauzioni che si riservano al migliore degli alleati. Cosa c’entra una cosa con l’altra? Indispensabile capirlo, se non si vuole parlare dei vicini Balcani con lo stupore di un marziano atterrato fresco fresco sulla terra provenendo da un mondo alieno. Quanto avvenuto ad Atene è strettamente collegato a una vicenda balcanica. Tsipras aveva chiesto la fiducia, giocando di anticipo sulle turbolenze interne alla sua maggioranza. Turbolenze manifestate con l’uscita dal governo del ministro della difesa, Pannos Kammenos. Kammenos rappresenta la lista di destra e nazionalista Anel, sostenitrice fino a pochi giorni fa di Tsipras, ma ferocemente contraria all’accordo raggiunto dal premier col suo omologo macedone, il socialdemocratico Zaev. In base a quell’accordo la Grecia riconosce la nuova definizione del paese confinante (Macedonia del Nord). Verrebbe così a cadere il veto ellenico sulla entrata di Skopje nella Ue. Perchè tale entrata possa realizzarsi ci vuole però l’assenso di entrambi i parlamenti nazionali. Non si può dire che i giochi siano ancora fatti ad Atene, ma certo se Tsipras fosse stato sfiduciato, sarebbe saltato il tavolo. Curiosa coincidenza: come Tsipras si salva per un voto e un voto solo, anche la proposta della nuova denominazione nazionale che passa a Skopje conseguendo il quorum necessario (2/3). Con un solo voto di margine (81 su 120). Al di là delle coincidenze, il capire quale sia il significato di tali eventi in materia di politica internazionale e quali siano le loro connessioni richiede una lettura non banale. Cominciamo col dire che la decisione macedone si era resa necessaria in quanto un referendum popolare indetto in materia non aveva raggiunto il quorum dei votanti. E aggiungiamo pure che la domanda, contenuta nel quesito referendario e ribadita nel corso del dibattito parlamentare, non faceva riferimento al solo cambiamento del nome. Si chiedeva infatti l’assenso dell’entrata della Macedonia (del Nord) nella Ue e, dulcis in fundo, nella Nato. Concludendo: il risultato ultimo dell’accordo Tsipras – Zaev potrà essere, se condotto fino in fondo con successo, l’aggiungersi di un nuovo stato balcanico nell’Alleanza atlantica. In analogia a quanto compiuto recentemente dal Montenegro e a conferma della scelta occidentale di Slovenia e Croazia. A conferma del fatto che ci si possa trovare di fronte a una svolta politica importante, in un contesto non solamente locale, stanno molti fattori. La Macedonia si trova geograficamente dislocata in un luogo in cui potrebbero passare pipeline che portano il gas russo in occidente e che non si troverebbero più la strada bloccata dalla Turchia, dopo le recenti piroette politiche di Erdogan. Il parlamento macedone è stato in un recente passato postelettorale, teatro di uno scontro pugilistico dopo che la minoranza conservatrice e il presidente della repubblica si erano rifiutati di accettare il responso elettorale. Non tanto per brogli reali o presunti, quanto perché era venuto a cadere un agreement importante nella vita politica del paese: quello che voleva che a competere fossero due liste composte ciascuna da un’alleanza mista (slavomacedone e albanese macedone): a evitare il risorgere di ostilità tra le due comunità che a suo tempo avevano fruttato una guerra civile. Nelle ultime elezioni, invece, la lista conservatrice non aveva trovato alcun partito albanese con cui allearsi e questo aveva enfatizzato la vittoria di Zaev come un successo dei suoi alleati albanesi, guarda caso tutti, come il premier, di orientamento filo occidentale. In un contesto in cui stare con la Nato o stare con Mosca rappresenta un distinguo prioritario a qualsiasi altro discorso. Non a caso il successo più recente di Zaev è dovuto al fatto che tutte le liste albanesi si sono allineate alla scelta del nuovo nome. Nel contempo, sul versante opposto, i conservatori hanno potuto trovare consensi in una società civile che ha fiutato una prospettiva non gradita di inserimento in un’allenza che, a suo tempo, aveva bombardato il paese vicino. A questo punto i giochi non sono ancora fatti, ma si può sicuramente concludere che, sia pure per un punto di qua e un punto di là, abbiamo da registrare l’avvicinamento di un paese balcanico, fin qui oscillante, in direzione della Nato. Passiamo ora a Belgrado: gli  ultimi mesi avevano visto una possibilità di accordo con la auto proclamata repubblica del Kosovo. Si era parlato di uno scambio di territori che avrebbe fatto rientrare con un accordo generale la zona a maggioranza serba del Kosovo nei confini della Serbia in cambio di una cessione al Kosovo di alcuni territori a maggioranza albanese del sud del paese slavo. Apparente quasi-accordo dei due presidenti Vucic e Thaci, tifo da stadio della Mogherini, che con la riappacificazione e l’entrata di Belgrado nella Ue avrebbe puntato al Nobel. Apparente sostegno di Trump e nessun ostacolo da parte di Putin che avrebbe accettato l’entrata di Belgrado nella Ue (ma non nella Nato) nel nome di un non allineamento. La Nato stessa pareva non contrariata. Si diceva che solo i nazionalisti estremi delle due parti avrebbero ostacolato la cosa. Probabile un eccessivo ottimismo sulla realizzabilità del progetto e sui rischi di effetti collaterali nel caso di un’andata in porto. Fatto si è che l’accordo è fallito e il premier kosovaro Haradinaj,  si è esibito in azioni che volevano dire sabotaggio di ogni possibilità di intesa. Violenza poliziesca contro un rappresentante di Belgrado a Mitrovica, dazi iperboloci sulle merci di provenienza serba, costituzione di un esercito kosovaro secondo tempi che neppure la Nato mostrò di condividere. Accordo colpito e affondato quindi, ma è pensabile che un Haradinaj qualsiasi avesse tanto potere o invece il sospetto che avesse qualcuno dietro di sé è legittimo? Trump a parte va detto che dalle parti del pentagono le mosse di Haradinaj avevano ricevuto piena approvazione, tanto da far pensare che fosse lì il fulcro di una opposizione al raffreddamento delle tensioni. Torniamo ora a Belgrado, dopo il fallimento dell’accordo. A chi guarda ora il presidente Vucic? Certo l’Europa, che avrebbe avuto una grossa carta da giocare, non si è rivelata, Mogherini a parte, un interlocutore per lui affidabile. May, Merkel in tutte altre faccende affacendate. Anche Macron coi suoi gilet, che ha addirittura rinviato una visita preannunciata a Belgrado. Italia dalla politica estera evanescente? Non pervenuta. Al di là di questo vuoto pneumatico in terra occidentale, ci sono stati fattori interni che hanno indebolito Vucic: tutti i sabati, a somiglianza di quanto avveniva a Parigi, ma con contenuti assolutamente non violenti, la gente scendeva in piazza. Sotto accusa la presidenza, che quanto a trasparenza negli affari interni non brillava affatto e che era accusata di essersi quanto meno disinteressata del pestaggio da parte di sconosciuti di un politico dell’opposizione. Serbia, in realtà, in serie difficoltà sul versante economico, con una costante emorragia di giovani laureati in partenza per l’estero. Giovani che il sistema educativo serbo, a dispetto di tutto, continua a sfornare con un elevato livello di preparazione che verrà goduto da altri paesi. Anche se non platealmente, le manifestazioni hanno fatto riferimento a scelte filo occidentali in politica estera e hanno suscitato nel presidente reazioni rabbiose che gli si sono poi ritorte contro (“Non mi dimetterò nemmeno davanti a 5 milioni di persone”). In questo quadro, con il paese immediatamente a sud che pare spostarsi verso l’occidente, con una questione kosovara irrisolta che fa da vincolo all’entrata nella Ue, si colloca l’arrivo di Putin. Dal non allineamento la Serbia sembra passare decisamente nello schieramento filorusso. Gli accordi che verranno firmati (una ventina) riguardano solo la cooperazione in materia energetica, di fornitura di gas, di ristrutturazione delle infrastrutture, di agricoltura. Ma la Russia fornisce già alla Serbia beni di carattere militare e come si suol dire, da cosa può nascere cosa. Oltre tutto scenderanno in piazza decina di migliaia di persone, a festeggiare l’amico Vladimir, come a controbilanciare le decine di migliaia di manifestanti dei giorni scorsi. Sullo sfondo, spettatore interessato, la Cina, che già nei Balcani sta investendo parecchio, anche con progetti a triangolo con la Ue in cui si possono inserire aziende italiane, se mai la nostra politica estera potrà produrre qualche risultato anche sul piano del business, sul quale non erano mancate premesse promettenti. Balcani lacerati dunque: chi tira verso l’occidente chi verso Mosca. Per ora solo scaramucce, ma all’accendersi della prima miccia ci potrebbe essere un’esplosione, se non in Serbia in una Bosnia anch’essa profondamente divisa. E l’Italia vicina, troppo vicina per non sentire il botto e magari qualcosa di più. A dispetto dei così detti “70 anni di pace in Europa” siamo già stati coinvolti in qualcosa del genere, sul finire del passato millennio.