GRAN BRETAGNA E SPAGNA: DUE SISTEMI POLITICI ALLO SBANDO

La sera di sabato 19 ottobre abbiamo sentito il conduttore del Tg1 chiedere al suo corrispondente da Londra cosa sarebbe successo dopo la presa di posizione della Camera dei Comuni: leggi il rifiuto di votare sull’accordo raggiunto tra Johnson e la Ue votando invece a favore di un ulteriore richiesta di rinvio. Rinvio, peraltro, rispedito al mittente dallo stesso Johnson che, da domani in poi, riproporrà alla stessa Camera dei Comuni il testo dello stesso accordo. Come lo stesso corrispondente si è rifiutato di rispondere alla domanda dello stesso conduttore per chiara impossibilità di farlo.Si aggiunga che lo stesso accordo raggiunto in extremis sulla non frontiera tra le due Irlande modifica solo in una parte politicamente sensibile, ma tutto sommato marginale (e a vantaggio dell’Ue) un testo che, nel suo insieme, era stato presentato dalla May ma respinto a più riprese dal Parlamento. Come erano state respinte tutte le altre proposte sottoposte al suo giudizio, salvo una (quella che gli avocava il diritto di cogestire il negoziato; rimasta peraltro lettera morta).A questo punto, rimane aperta solo la via delle elezioni. Via, peraltro, che avrebbe dovuto essere percorsa subito dopo il fallimento della May. E in cui sarebbe emersa, da subito, la correttezza della alternativa laburista: ripartire dalla Brexit; ma non per seguire sogni di separazione di segno iperliberista ma piuttosto per costruire nuovi rapporti basati sulla cooperazione e la tutela dei diritti.Oggi, la ragionevolezza non è più all’ordine del giorno. Troppi scontri. Troppe violazioni della costituzione materiale del paese. Troppi odi, personali e politici, diffusi a piene mani. Oggi si voterà pro o contro la Brexit. Ma in un contesto in cui i sì saranno rappresentati da un partito solo mentre i no e i forse da tutti gli altri, tra loro divisi. E in un sistema uninominale a turno unico. Oggi si voterà sull’identità nazionale; un terreno in cui, come accade in tutta Europa vince la destra.In Spagna, la marcia verso l’abisso era cominciata nel 2010, quando la Corte suprema cancellò lo Statuto di autonomia concesso da Zapatero nel 2006. E si era bruscamente accelerata dopo il, politicamente sciagurato, referendum del 2017. Ma oggi rischia di diventare irreversibile dopo la sentenza del Tribunale e la reazione, a dir poco, pilatesca del governo socialista nei suoi confronti.Il verdetto è un classico esempio di sentenza suicida. Da una parte perché contesta in toto le tesi dell’accusa. “Non vi fu ribellione” dice. E non soltanto perché (come hanno riportato i giornali italiani) non ci fu alcuna violenza. Ma, anche e soprattutto, perché l’uso del referendum fu un esercizio volutamente fine a se stesso; e cioè non volto a realizzare l’indipendenza ma a fare pressione sul governo spagnolo per ottenere più ampi margini di autonomia. Grazie anche al consenso, imponente, anche se non maggioritario, che aveva raggiunto.Insomma, dieci e più anni di carcere per un reato d’intenzione. Una roba, magari anche giustificata in base all’art. X o Y della Costituzione spagnola; ma che appare in contraddizione stridente con i principi base di qualsiasi democrazia liberale. A prescindere, poi, dalle sue conseguenze politiche dirompenti.Così la destra – da Vox fino a Ciudadanos – ha subito colto la palla al balzo: se l’intenzione manifesta costituisce reato, allora anche l’attuale governo catalano ne è colpevole e va sanzionato: dalle misure estreme proposte, per la platea, da Vox e da Ciudadanos, fino alla ripresa del controllo da parte del centro e dei media ufficiali catalani (a partire dalla radiotelevisione) del loro sistema educativo, visti come canale per la diffusione di posizioni indipendentiste.Così Quim Torra, che puntava tutte le sue carte sul dialogo con Sanchez (in giusta polemica con l’avventurismo di Puidgemont e della destra catalana), si vede costretto a guidare ma a seguire gigantesche manifestazioni indipendentiste, sempre suscettibili di sfuggire al suo controllo.In tutto questo, il governo socialista aveva, oggettivamente, ristrettissimi margini di manovra. In piena campagna elettorale. Con un anticatalanismo alimentato a piene mani, nel resto del paese e nella stessa Catalogna, dalla destra e soprattutto da Abazcal e Rivera (spagnoli del Paese basco e della Catalogna); e senza avere costruito un rapporto concreto con lo schieramento che pur aveva contribuito alla sue elezione.