HONG KONG. VA IN FRANTUMI QUELLA CHE FU LA VETRINA DELL’OCCIDENTE

Hong Kong, manifestante colpito da un proiettile al torace, sparato dalla polizia. Grave in ospedale. Altri 30 (o 60?) i feriti. Oltre 60 (o 100?) gli arrestati. Una cosa è certa. La polizia giustifica lo sparo con lo stato di necessità, ma nulla fa per nasconderlo. C’è un video che parla chiaro e che circola liberamente senza ombra di censure. Forse nessuno le desidera. Né i manifestanti che vogliono sottolineare la linea dura delle forze dell’ordine. Ma nemmeno queste ultime, che intendono da parte loro sottolineare come si sia passati alla linea dura. In linea con quanto avvenuto poche settimane fa. Video coi carri armati molto vicini ad Hong Kong. Non si trattava di video clandestini che intendevano documentare uno spostamento delle truppe di Pechino. Era la stessa Pechino ad avvertire che i carri armati di stanza nella zona avrebbero potuto passare all’azione, se richiesta. Per ora niente carri armati, ma l’escalation è evidente. Da ambo le parti. Basti pensare alle forme del conflitto, non più tardi di 5 anni fa. Manifestanti che si consegnavano alla polizia dopo manifestazioni in cui l’unico corpo contundente era costituito dagli ombrelli a tutela dei gas urticanti. Polizia che li rilasciava o al massimo li proscioglieva in tempi brevi. Con un fair play vicino allo scambio di cortesie. Cosa è cambiato in così poco tempo? Hong Kong ha una storia del tutto particolare che serve a capire le cose. Un trattato tra i colonizzatori britannici e Pechino. Vi si prevedeva, già nel 1898, che Cina e Hong Kong sarebbero diventati un paese solo nel 1997, dopo un secolo di protettorato britannico. Scadenza rispettata nei tempi dovuti da Tony Blair e Jiang Zemin nel segno di “Un paese e due sistemi”. Come dire che Hong Kong avrebbe fatto parte della Cina, ma con un sistema economico di libero mercato, mentre la Cina, a modo suo, rimaneva comunista. Politica estera e della Difesa nelle mani di Pechino e qualche nodo irrisolto. In primo luogo il sistema elettorale che, al tirar delle somme, comportava la scelta del Capo dell’esecutivo da parte di una commissione ristretta, largamente condizionata da Pechino, scontentando, alla luce dei fatti odierni, sia la Cina che Hong Kong. Oggi è la signora Carrie Lam che cerca di destreggiarsi con evidenti difficoltà tra le parti in conflitto. Primi riscontri pesanti già nel 2016, quando due eletti videro annullato il loro successo per essersi rifiutati di prestare fedeltà a Pechino. Poi il nodo centrale del conflitto è diventato una proposta di legge che sottraeva ad Hong Kong il diritto di tenersi strette e di giudicare per conto proprio le persone incriminate provenienti da paesi verso cui l’estradizione non era prevista. Non necessariamente quel paese doveva essere la Cina (il casus belli era invece scoppiato per un uxoricidio perpetrato nell’isola da un cittadino di Taiwan), ma al fondo della questione gravava un problema di ordine politico: l’apertura di un varco per l’ingerenza della Cina nell’amministrazione della giustizia ad Hong Kong. Una questione di principio che diede fuoco alle polveri. Hong Kong, per un secolo vetrina dell’Occidente aggrappata geograficamente a un lembo costiero della Cina, aveva rappresentato una vetrina cui si era voluto a lungo dare i connotati dell’isola felice. Le aspettative di essere inglobate in un sistema meno felice sono in grado di suscitare timori e rivolte diffuse, senza bisogno di pretesti e di agenti provocatori. Figuriamoci di questi tempi, quando le provocazioni possono servire a troppi interessi, in pieno clima di guerra dei dazi e assimilabili. Occupazione dell’aeroporto, sciopero generale. Poi l’escalation violenta: guerriglia urbana, molotov e spari per le strade. Negli ultimi mesi Carrie Lam ha mediato come ha potuto. Fintanto che la proposta di legge è stata da lei definita morta. Tutti a casa felici e contenti? Nemmeno per sogno. Insufficienti secondo i manifestanti le garanzie che fosse, oltre che morta, pure sepolta. Non a caso la governatrice aveva accompagnato il suo gesto di disponibilità con la richiesta che altri punti non diventassero oggetto di contenzioso. Figuriamoci se poteva accettare che il punto successivo fosse quello delle sue dimissioni. In sottofondo, ma neppure troppo sotto, si capisce come il successivo monito di Pechino a chi avesse inteso proseguire nelle proteste, potesse avere un pesante risvolto di politica internazionale. Inizialmente, da parte della polizia, mano leggera. Che infatti fino a luglio è stata universalmente ritenuta tale dagli osservatori.. Ma cambio di linea appena si potesse subodorare che dietro alle manifestazioni, o comunque sinergico con esse, si potesse individuare l’interesse di qualche potenza straniera. Nulla di più facile, negli ultimi tempi, visto l’accendersi della guerra dei dazi con gli Stati Uniti. E’ di oggi la visita del Segretario di stato Usa, Mike Pompeo, a Roma. Non ha mancato di sottolineare il pericolo, per l’Italia, di imbarcarsi in alleanze con la Cina. Come lo è stata una sia pur moderata adesione alla Via della Seta. Attenzione che vi troverete occhi e orecchie di Pechino dappertutto, ha detto inoltre Pompeo, se non fate attenzione all’introduzione della tecnologia 5G. Sul tavolo, per noi, c’è la messa in discussione di tutta la nostra politica estera, dalla Libia al Medio Oriente. Figuriamoci se, in questo clima, ingerenze ben più organiche non possono essere presenti, con forza ancora maggiore, nella questione di Hong Kong. E’ questo che Xi Jinping non può a sua volta tollerare. Lo ha detto senza possibilità di equivoci proprio nelle celebrazioni dei 70 anni della Repubblica Popolare Cinese. Tenutesi in contemporanea con gli scontri di Hong Kong. Oggi un sit in di protesta nell’isola, davanti a una scuola. Solo qualche centinaia, dopo le centinaia di migliaia dei giorni scorsi. La repressione ha ottenuto quanto desiderato? Oppure è solo la quiete prima della tempesta?