TUTTO IL MIO FOLLE AMORE. L’UTOPIA FUORI TEMPO MASSIMO DI GABRIELE SALVATORES

Ci dev’essere, da qualche parte, un luogo dov’è possibile, sentirsi uomini e non caporali, scoprirsi vivi e mettersi sul serio in gioco, gettarsi nell’avventura della vita, ritrovandosi al fine meno borghesi e alienati, meno insignificanti e frustrati. Okay. Basta andare in Slovenia e in Croazia senza passaporto e per rotte non abusate. Peregrinando ai confini della legge, e di Schengen, si trovano mini comunità di autoproclamati zingari che vivono di baratti (pane contro pagine di poesia); si incontrano brutti ceffi che, se gli chiedi un’indicazione, ti disegnano a carboncino la meta, oppurelapdancerdal cuore sensuale che ripagano con la dolcezza l’ingenuità del cliente inesperto; per non parlare di burberi malati terminali che trascorrono la notte circondati da cento candele, in attesa di un’epifania che forse li salvi dal colpo di rivoltella… Voilà. Questo campionario di turismo dell’Utopia, severamente marcato anni Settanta, ci viene squadernato durante la fiabesca vicenda (tratta però da una storia vera) di un musicista libero e sfigato (Claudio Santamaria, qui Willi, noto come il Modugno della Dalmazia) che si ritrova in giro per una serie di concerti surreali, tra roulotte e scuole di danze slave, insieme al figlio autistico (Giulio Pranno) che aveva abbandonato alla nascita, 16 anni prima. Inseguono i due la madre (Valeria Golino), ‘nuotatrice indolente’ della vita, e il padre putativo (Diego Abatantuono), editore e amante di John Cheever, deluso dalle cagate che si scrivono oggi.