UN “NUOVO ULIVO” PD-M5S COME FINE. ALMENO PER FRANCESCHINI

“Per battere la destra ne vale la pena” dice Dario Franceschini in un’intervista rilasciata aClaudio Tito e pubblicata da la Repubblica il 12 settembre.Il tema è la formazione di una possibile alleanza elettorale programmatica fra il M5S e il PD. “Se lavoreremo bene, potremo presentarci insieme già alle regionali” in Emilia Romagna e Calabria, addirittura, “se c’è la volontà politica” già in Umbria e da qui “per le comunali e arrivare alle politiche”. Il quadro immaginato è quello di un “nuovo Ulivo” che non riguardi solo il PD, ma “tutto il centrosinistra e il MoVimento 5 Stelle”. Un alleanza che, per il Ministro di area dem, è già positiva. “Non c’è dubbio, senza questo governo, saremmo in campagna elettorale” e “avremmo Salvini al Papeete all’ennesima potenza, magari a torso nudo a mietere il Grano”. “Salvini”, chiosa Franceschini, “è il massimo di pericolosità democratica che si può avere nel 2019”. Il progetto mi lascia, personalmente, molto perplesso e scettico. Certamente, Franceschini e Prodi – come parte della UE – vedono nel “nuovo Ulivo” un modo di “normalizzare” il 5 Stelle, ma la storia ci insegna che il populismo o lo si combatte a muso duro o ci si riduce ad adeguarsi alle sue modalità e slogan. Non bisogna guardare molto llontano, l’esempio è tutto italiano: il berlusconismo. Il paragone con l’Ulivo piacerà a molti, ma se allora l’alleanza nacque fra partiti legati dalla comune appartenenza al quadro costituzionale italiano, la sua nuova iterazione nascerebbe fra gli ultimi esponenti di questi partiti (PD, LeU, magari anche Verdi e, come auspicato da molti, anche da +Europa) e un movimento realmente populista: un big tent che ondeggia fra massimalismo, sovranismo, uso politico delle fake-news e una mai nascosta avversione alla democrazia rappresentativa. Il tutto ammantato, come nel 1996, dall’evocazione del “pericolo democratico” secondo quella dicotomia bipolare che ha portato ad annacquare le diverse idee politiche e, alla lunga, a tradursi nella semplice scelta fra “peggio” e “meno peggio”. Una dicotomia, occorre sottolinearlo, che non ha evitato né il ventennio berlusconiano, né la sua pesante eredità (il populismo) oltre a frenare lo sviluppo democratico (tutta la polemica sulla democrazia rappresenatativa, unico paese ad averla), economico (stallo e stagnazione economica) e sociale (divisione per squadre, tifosi e “chiese” diverse) del paese. Franceschini – riprendendo l’idea di Prodi della cosidetta “coalizione Ursula” – vede nel “nuovo Ulivo” un soggetto totalemente riformista, aggettivo che egli attribuisce anche aldiscorso proferito da Conte per la fiducia. Da un certo punto di vista (bloccare la destra), l’alleanza immaginata da Franceschini potrebbe anche avere successo. Essa, dati alla mano – di una percentuale che oscilla fra il 45% e – considerando anche verdi e altri partiti, movimenti di LeU – il 50% dei consensi contro il 44% del centrodestra a guida salviniana. Peccato che il programma del nuovo governo sembri più un inno al populismo di sinistra – quello evocato come salvifico dalla politologa belga Chantal Mouffe (“Per un populismo di Sinistra“, ed. Laterza) – che un progetto atto a eliminare il germe populista dal paese. Il trait d’union fra i due neo-alleati è, infatti, il ricorso alla spesa pubblica, all’interno di un’ottica neokeynesiana (lo Stato etico investitore) invocato dall’economista italo-americana Marianna Mazzucato. Basti pensare al ruolo di Cassa Depositi e Prestiti nel “rilancio eocnomico” immatinato dal MoVimento 5 Stelle e condiviso dal neoministro per il Sud, e membro della direzione nazionale del PD in quota Zingaretti, Giuseppe Provenzano (“La sinistra e la scintilla“, editore Donzelli). Tradotto: deficit e incremento di spesa nonostante a) questo avvenga da 30 anni e b) la crescita rimanga stagnate. A fronte della rapida virata simil-populista del PD (condivisa anche dai popolari europei, ma ne parleremo nel Caffè di domani), difficile credere che il piano del PD zingarettiano o dei comitati renziani fosse quello di creare un’alternativa reale al populismo. Se il fine rimarrà l’alleanza fra PD e 5 Stelle, non posso che apprezzare l’aver negato la fiducia al conte bis a quel poco di parlamentare che rimane dell’area realmente liberaldemocratica del paese (Richetti, Bonino) o l’uscita di Carlo Calenda dal PD. Per quanto molto mi divida dai nomi sopracitati, essi rappresentano quel 6-10% della società civile (al netto degli astenuti) che non ci sta e non guarda a Renzi, Zingaretti e Conte, tantomeno (siamo seri!) a Carfagna e Berlusconi, per salvare il pensiero liberaldemocratico del paese.