IL PARADOSSO INSOLUBILE ALLA BASE DEL CAOS IN LIBANO

C’è un paradosso apparentemente insolubile alla base del caos in Libano: come è noto la piazza – per definizione liquida, eterogenea – chiede la fine del settarismo, trasparenza e l’adozione di logiche democratiche sostanziali. Perché tutto questo – flusso, non stock – si concretizzi, invoca una sorta di “anno-zero”, cioè un governo tecnico che escluda i partiti eletti in parlamento e che prepari il paese a nuove elezioni con una legge elettorale che nelle speranze generali dovrebbe essere de-settarizzata, ossia circoscrizione unica, fine della divisione delle cariche su linee confessionali e nessuna affiliazione comunitaria. È però evidente come dal punto di vista perlomeno dialettico questa vaga progettualità poggi su basi fragili e appunto paradossali, poiché in sostanza una piazza acefala – a prescindere dalla sua bontà o dimensione, difficilmente misurabile – delibera sulla sospensione delle stesse logiche democratiche – in base alla quale i politici eletti dovrebbero farsi da parte per sopraggiunto (e percepito) sfinimento della società, lasciando il posto a dei tecnici che in ogni caso nn possono essere MAI immuni da affiliazioni o simpatie politiche -, della composizione di una assemblea rinnovata (..) un anno fa, per giungere concretamente ad un nuovo sistema politico. Senza dimenticare che il “bello”, se queste logiche democratiche dovessero essere tutelate assieme agli aspetti procedurali, deve ancora venire. Non è infatti dato sapere in che modo la piazza – e la creatura politica che magari produrrà – si aspetti di vincere le elezioni (perché alla fine arriviamo lì) al cospetto di partiti dotati di enormi macchine di propaganda, radicamento trentennale (o più) sul territorio, in un sistema parlamentare puro, formalmente non più settario, ma in una società che in parte, sopratutto le vecchie generazioni e sopratutto fuori dalle città, lo è ancora, e che voterebbe il candidato appartenente alla propria comunità. Quel che invece si sa è che estendendo, proiettando questo ragionamento in aggregato, le elezioni le vincerebbe probabilmente il candidato del partito che – formalmente o solo sostanzialmente – si presenti come appartenente al gruppo confessionale più numeroso (cioè quello sciita), a prescindere dai programmi e della postura. Questo sempre ignorando tutti gli aspetti geopolitici che rendono in ogni caso il Paese esposto all’influenza di diversi attori, statali e non. Sarà anche per questo che, specie di questi tempi, si litiga tanto nelle famiglie libanesi. I figli che bramano una società laica, democratica, trasparente, e i genitori che nel contestarli impugnano l’argomento del caos all’orizzonte e sopratutto della sacralità della logica elettorale (premessa ineludibile della democrazia, anche se non sufficiente), che concorre a legittimare ai loro occhi l’intoccabilità di quegli stessi leader che i loro figli vorrebbero mandare in pensione. La nomina di Diab, in ogni caso, non risolve nulla, anzi, rischia di aprire una nuova linea di tensione politico-istituzionale tra comunità sciita (e una parte maggioritaria di quella cristiana e armena) e la comunità sunnita (e una parte minoritaria d quella cristiana, e una maggioritaria di quella drusa), vista la ovvia evocazione di quanto accadde nel 2014 con la sfiducia di Hezbollah ad Hariri e l’istituzione di un governo Mikati. L’altro paradosso è molto più semplice da spiegare: per produrre un governo solido e competente – ancor più se svincolato dalla politica – ci sarebbe bisogno di tempo e un consensus profondo, non solo nel parlamento; proprio quel tempo che la comunità internazionale considera agli sgoccioli, se il Libano vuole usufruire di un pacchetto di (vitali) prestiti per un ammontare di 12 miliardi e non annegare nelle sabbie mobili degli aggiustamenti strutturali del FMI. O molto peggio, vista la progressiva erosione del valore dei bond libanesi. Sarà un anno lunghissimo, il 2020. Ma già è bello arrivarci (mi gratto, per sicurezza)