CHI ERA IL GENERALE QASSEM SOLEIMANI
Dal punto di vista dell’escatologia khomeinista e in parte sciita, l’uccisione del generale iraniano Qassem Soleimani è quasi una “bella” notizia per gli stessi vertici della Repubblica islamica. “Il martirio è un calice dolce, la resa un calice amaro”, recita un adagio. Khomeini dovette “bere il calice amaro”, quando si trovò costretto ad accettare il cessate il fuoco nella guerra che l’Iraq di Saddam Hussein gli aveva dichiarato e portato in casa. Il generale Qassem Soleimani, invece, il martirio lo ha trovato stanotte a Baghdad, ucciso in un raid di precisione condotto da un drone americano che ha colpito anche Abu Mahdi Al Muhandis, numero due del raggruppamento di milizie paramilitari irachene e filoiraniane denominato Hashd al Shaabi. Il “martire vivente”, come lo aveva definito tempo fa in modo figurato la Guida suprema Ali Khamenei, stavolta ha trovato la morte reale. Al suo posto il Rahbar ha nominato Esmail Ghaani, il vice di Soleimani. Sessantadue anni, da ventuno a capo della sezione – la “Al Quds”, il nome in arabo di Gerusalemme – per le operazioni esterne delle Guardie della Rivoluzione (IRGC), Soleimani è stato di fatto il principale stratega della politica estera e di sicurezza della Repubblica islamica, primo responsabile della sorprendente ascesa regionale di un paese ancora oggi isolato dalla comunità internazionale ma comunque in grado di ritagliarsi un crescente spazio di influenza, pur a fronte di avversari dotati di maggiori risorse militari, politiche e finanziarie. Lo ha fatto costruendo e coordinando una rete di attori militari non statali nella regione – da Hezbollah alle milizie irachene, passando per quelle afghane e pakistane -, motivati da un comune sentimento di appartenenza politica, culturale e ideologica all’Iran, e che costituiscono gli strumenti di difesa – o attacco – asimmetrica della Repubblica islamica. Il “singolo agente più potente di tutto il medioriente”, lo aveva definito nel 2012 John Maguire, un ex operativo della CIA in Iraq. Una definizione che, peraltro, era arrivata prima che lo stesso Qassem Soleiman si affermasse come uno dei principali architetti della sconfitta dell’Isis in Iraq – oltre che della sopravvivenza di Assad in Siria, prima del decisivo intervento russo -, fornendo aiuti militari al Kurdistan iracheno – le cui autorità venivano corrotte per far passare rifornimenti alle milizie iraniane in Siria – e contestualmente organizzando le varie milizie paramilitari irachene. Nell’ultimo decennio dello scorso secolo e nel primo del nuovo millennio Soleimani si era dedicato sopratutto a due fronti, quello del sostegno ai ribelli afghani contro i Talebani – acerrimi nemici di Teheran – e a partire dall’invasione americana dell’Iraq, quello del coordinamento della miriade di milizie che combatterono le truppe americane in territorio iracheno. Senza dimenticare il sostegno ai sunniti di Hamas e le sanguinose azioni militari contro truppe e funzionari statunitensi nella regione. In gran parte dei casi, operazioni di guerriglia asimmetrica, volte a mantenere un sottile e precario equilibrio della deterrenza. Con l’intervento decisivo in Siria, invece, Soleimani ha acquisito una dimensione pubblica, per certi versi mainstream, venendo a costituire talvolta anche in Occidente l’immagine dello “007 dell’anti imperialismo americano” per i suoi sostenitori, e quella del feroce repressore delle rivolte siriane per i suoi detrattori. Sebbene negli ultimi anni di lui si sia parlato anche come possibile esponente del fronte ultra conservatore nelle future elezioni per la successione di Rouhani, e sebbene Soleimani faccia pienamente parte dell’establishment della Repubblica islamica, sopratutto per la sua vicinanza personale a Khamenei, il suo assassinio si inserisce in una scia di morti eccellenti all’interno della impalcatura di proxies estere dell’Iran, che iniziò probabilmente con l’uccisione nel 1992 dell’allora segretario di Hezbollah, Abbas Al Moussawi, ed è proseguita con l’eliminazione negli ultimi 15 anni di figure di spicco della formazione sciita libanese, come Imad e Jihad Mughniyeh, Mustafa Badreddine, Ali Al Hadi Al Ashiq, Samir Kantar, Ali Fayyad e di Hassan Shateri, un altro generale delle Forze al Quds, o Hossein Hamedani, generale delle IRGC con un ruolo di primo piano in Siria. La sua reputazione di “eroe” nella guerra contro l’Isis presso milioni di musulmani sciiti è l’aspetto più preoccupante e imprevedibile delle prospettive di escalation che derivano dalla notizia della sua morte. Soleimani era un simbolo, un contenitore vivente di narrativa khomeinista e di nazionalismo iraniano, un veterano di diverse guerre, un vessillo, oltre che uno stratega dell’antagonismo iraniano nella regione. E sarà molto complicato delineare e contenere una “mappatura” delle possibili reazioni alla improvvisa – sebbene attesa – fine della sua traiettoria. (AGI) LBY
