IRAQ, ESPLODE LA POLVERIERA MEDIO ORIENTALE. TRAGEDIE PASSATE E FUTURE. SIAMO COINVOLTI

IRAQ, ESPLODE LA POLVERIERA MEDIO ORIENTALE. TRAGEDIE PASSATE E FUTURE. SIAMO COINVOLTI

Tutta colpa di Trump e solo del folle Trump. Questo il livello ricorrente di molte analisi, per fortuna non tutte, che circolano sui media a proposito della esplosiva situazione in Medio Oriente. Certo Donald ci ha messo parecchio del suo assumendosi la responsabilità di avere fatto fuori un leader dell’Islam sciita iraniano come Soleimani. Ma non è del tutto meritato il rilancio della popolarità della marionetta col ciuffo. Non per niente ad ogni fanfaluca del Presidente segue non solo una conferma concreta, ma anche una dichiarazione ben più circostanziata del Segretario di stato Mike Pompeo. Un politico dal linguaggio più tradizionale che avalla però in toto il significato delle sparate creative di Donald. Tanto da far ipotizzare che il burattinaio sia lui. Se non si ragiona nei termini di una prospettiva di lungo periodo si rischia di fare confusione. Quanto meno di ribaltare il significato tra gli aspetti contingenti della operazione Soleimani e la sua ragion d’essere sul lungo periodo. Tipico il peso dato alla prossima discussione in Senato sull’impeachment di Trump, difficile comunque da raggiungere vista la maggioranza repubblicana in tale sede. Considerazioni, quelle dei dem, condivisibili nel breve periodo, ma all’indomani c’è dell’altro, E viceversa l’attenzione relativamente contenuta su quali possano essere i riflessi, nell’intero scenario medio orientale. Iran certo compreso, ma non solo. Procediamo con ordine. In primo luogo si tratta di un attacco folle o di una manovra sicuramente ad alto rischio, ma studiata con cura a tavolino? Stiamo ai fatti. Iran in ginocchio sul versante economico. La gente protesta, la polizia spara, da quando le sanzioni impediscono di elargire sussidi a pioggia a fasce relativamente ampie della popolazione, che di sussidi viveva. Tutelati solo gli ultimi, ma i penultimi non ci stanno. Prossimo un turno elettorale in febbraio. Disaccordi tra componente integralista dell’ayatollah Khamenei e la presidenza della Repubblica (Rohani) più aperta al dialogo. Guarda caso un possibile elemento di collante tra i due poteva essere costituito proprio da Soleimani. Ma altre ancora sono le ragioni che conferiscono “razionalità” al gesto di Pompeo. Sullo sfondo la strategia di una balcanizzazione del Medio Oriente e non solo. Stati polverizzati, dalla Libia alla Siria all’Iraq, secondo una linea di condotta che è proseguita imperterrita da Bush jr a Hillary Clinton (solo parzialmente frenata da Obama) per arrivare fino alla Presidenza attuale e al suo staff. I rapporti tra Mosca e Tehran, più freddi del conosciuto, come sottolinea Farian Sabahi, forte delle sue conoscenze linguistiche su il Manifesto. Di qui il possibile semaforo verde di Vladimir a The Donald, fatto salvo un successivo ritualistico invito alla prudenza. La necessità per gli Usa di stabilire un punto fermo in Medio Oriente, a bilanciare lo sfaldamento della Nato e il disinteresse di Erdogan a farsi supporto di Washington. Last but not least la riaffermazione di volere creare instabilità non tanto e non soltanto in Iran, ma in prima battuta in un Iraq sull’orlo del caos e forse qualcosa di più, facendo così un piacere all’Arabia Saudita e in ultima analisi rischiando la resurrezione dell’Isis. Ma anche, in seconda battuta, innescando un processo di polverizzazione dell’area che venga a toccare un Libano più instabile che mai, facendo così un piacere ad Israele. Ci si muove nella sfera dell’incertezza, questo è incontestabile. Ma non della follia. Per lo meno per chi ritiene che in fondo, una bella guerra non sia una follia. Non è la nostra opinione, ma poco importa. Forse non sarà guerra frontale Usa vs Iran. Ai primi la débacle afghana dovrebbe avere risvegliato qualche ricordo vietnamita. Lo stesso Trump ha detto che, bontà sua,  non bisogna chiamarla guerra. Ma anche i secondi, al di là dei proclami, sanno che la loro aviazione è troppo debole per reggere uno scontro frontale. Più probabile una guerra in campo “neutro”, si fa per dire. Nell’Iraq soprattutto, un paese con una governo filo sciita messo in piedi dall’Occidente per sostituire l’ex-amico Saddam. Un governo che adesso non sa che pesci pigliare per non essere filo Usa, ma nemmeno filo iraniano, stiracchiato com’è da una parte e dall’altra. Mentre una crisi economica paurosa  scatena nelle strade la guerra di tutti contro tutti. Oggi in Iraq, ma domani anche nel Libano dove la convivenza interreligiosa tra le componenti islamiche e quella cristiana, con Israele alle porte, tiene con lo sputo. Non solo Iran dunque. Iraq e poi Libano da tenere sotto osservazione (risparmiamo per ragioni di spazio le considerazioni sulla realtà yemenita). Guarda caso, se per un attimo pensiamo ai fatti nostri, vale a dire alla presenza di truppe italiane nell’area, qualche cosa ci salta agli occhi. Il contingente italiano nelle Nazioni Unite più numeroso, come nota Ennio Remondino, è quello distaccato in Libano, in due distinte missioni: “Unifil, dell’Onu, che impegna fino a 1.076 soldati e una missione bilaterale Italia-Libano di addestramento delle forze di sicurezza libanesi che ne impegna altri 140”. “Segue poi il contingente italiano in Iraq, quello coinvolto nel recente attentato a Kirkuk. Qui operano fino a 1.100 uomini nella coalizione internazionale di contrasto alla minaccia terroristica”. Decisioni prese in altri momenti. Oggi la situazione è cambiata e più ancora cambierà in futuro. Per il momento noi invitiamo alla moderazione, accodandoci alla Ue. Ma da quelle parti che ci stiamo a fare? Non basta pensare che, già col disimpegno di Erdogan, i nostri impegni Nato nel Mediterraneo aumenteranno in automatico?