A MILANO DAL PROSSIMO 6 MARZO A PALAZZO REALE

Sono tanti e importanti i fotografi che hanno scattato immagini nei musei o nelle gallerie d’arte. Il più conosciuto è certamente il lavoro di Thomas Struth “Museum Photographs”, messo a punto dal grande fotografo tedesco tra il 1989 e il 1992. Hanno scattato foto nei musei anche Elliott Erwitt, Martine Frank ed Henri Cartier Bresson. Ma prima di Struth, su un verso completamente opposto, c’è stato Luigi Ghirri, che nel 1986 ha scattato 102 fotografie di piccolissimo formato, 6×8 centimetri, proprio dentro i musei, osservando il pubblico. Mentre Struth decide di fotografare anche con il banco ottico (dunque si rende visibile dai visitatori) per poi esporre le sue foto in formati grandissimi. Ghirri fa l’opposto. Rende tutto piccolissimo. Mentre con Struth ho sempre la percezione che ci sia troppa gente, con Ghirri tutto è detto sottovoce. Mentre Erwitt, Frank e Cartier-Bresson cercano lo scatto particolare che faccia di un gesto dei visitatori nel museo qualcosa di irripetibile, Ghirri è un basso continuo, una costante. E Struth un discorso ad alta voce, una partitura per orchestra. Anche i formati lo dicono. Quasi invisibile Ghirri, plateale Struth. Era da lì che dovevo partire. Ma con un elemento in più, che è quello determinante: ovvero che il pubblico è il tempo. Sono passati oltre 30 anni dai lavori di Ghirri e di Struth: un tempo lungo. Il pubblico è cambiato: sono cambiate le posture, è diversa la concentrazione, non c’erano telefoni cellulari nel 1989, i musei avevano ancora qualcosa di desueto, di conservativo, l’architettura degli edifici, la sistemazione delle sale, in generale gli spazi, restavano ancora sullo sfondo. Oggi invece gli spazi sono un elemento prepotente. In questo teatro dell’arte su cui ho lavorato per cinque anni, tra il 2015 e il 2019 ci sono tutti questi elementi: c’è la storia, ci sono le linee, c’è l’attesa, l’osservazione dei movimenti, spesso c’è lo spazio. Ma è come scommettere contro le opere. Si tratta di riportare al centro, come un evento irripetibile, un visitatore che non si somma agli spazi ma ora cambia le regole: un capovolgimento. Come se i musei non esistessero senza i visitatori, e di più: il museo è il visitatore, al di là delle opere. D’altronde, per inciso, leggenda vuole che i musei di notte siano popolati di fantasmi, e questo perché gli spazi museali non sopportano l’assenza delle persone, e dunque che almeno siano i fantasmi a supplire a quelle assenze. Spesso si ha la sensazione che la perpetua distrazione del pubblico non permetta più una vera connessione tra opera e visitatore: una “Sindrome di Stendhal” superata dalla modernità, ormai guarita, come guarirono con l’avvento della civiltà delle macchine i primi casi di isteria studiati da Freud. Eppure il visitatore è ignaro di essere diventato un protagonista. L’opera, il capolavoro artistico è diventata un pubblico che vuole nuovi attori sul palcoscenico del suo teatro. Un paradosso, un capovolgimento, in questo nostro tempo nuovo. Questo è quello che vedrete, se avrete il tempo e la voglia, dal prossimo 6 marzo a Milano, a Palazzo Reale.