DELITTO DI COGNE 18 ANNI DOPO. UNA SEMPLICE VERITA’

Da qualsiasi parte tu lo guardi non riesci a trovare una soluzione diversa da quella disposta infine dalla Cassazione per il delitto di Montroz, frazione di Cogne. A meno di non spingersi su terreni che confinano con il complottismo, tre gradi di giudizio hanno ritenuto colpevole Anna Maria Franzoni, la madre, per l’omicidio del piccolo Samuele Lorenzi, avvenuto il 30 gennaio 2002. Questo delitto è tra quelli che sono rimasti più in profondità nell’immaginario collettivo e hanno dato vita alla stagione, ancora in corso, dei processi affidati alla gogna mediatica prima che al giudizio dei tribunali. La mia impressione di cronista che ha seguito a lungo la vicenda è che gran parte degli italiani sperassero in un esito diverso del processo, perché pensare a una madre che uccide il figlio è una ferita lacerante per qualsiasi società. Soprattutto quando la persona accusata non è preda di una follia visibile e a lungo ha sostenuto con forza la sua innocenza, non risparmiandosi nell’esposizione mediatica. Ancora oggi, dopo aver estinto dal 7 gennaio 2019 la pena inflitta, 6 anni di carcere e 5 di arresti domiciliari, proclama la sua innocenza. L’Italia si divise in colpevolisti e innocentisti dinanzi alla madre di tutte le parodie mediatiche di un processo, il famoso plastico della villetta del delitto, esposto con buona dose di miseria umana e culturale in un seguitissimo programma televisivo, il cui conduttore non è certo noto per la sua raffinatezza di analisi. Ripercorriamo la vicenda. Alle ore 8,28 del 30 gennaio 2002, quando al 118 arriva la telefonata con richiesta di aiuto di Anna Maria Franzoni, la scena del delitto è già compromessa. Prima del 118 era intervenuta infatti la dottoressa di famiglia, chiamata dalla Franzoni, che dinanzi al bambino che mostra una profonda ferita alla testa con fuoriuscita di materia grigia, gli lava la testa, lo mette su una improvvisata barella e lo sposta all’esterno della casa. La versione della madre al 118 è che il piccolo Samuele “vomitava sangue” dalla testa. Samuele è ancora vivo. Verrà dichiarato morto dai soccorritori, arrivati in elicottero, alle 9,55. Ma constatano anche che non si tratta di una morte naturale o accidentale, sul piccolo si è compiuto un atto violento. L’autopsia accerterà almeno 17 colpi inferti con un corpo contundente oltre, ce lo racconta la scienza, a ferite su una mano che lasciano presupporre un tentativo istintivo di difesa. L’arma del delitto non verrà mai ritrovata. Ce n’è abbastanza per far star male un’intera nazione, oltre naturalmente ai familiari della vittima. Anna Maria Franzoni viene arrestata un mese e mezzo dopo e scarcerata a fine marzo di quell’anno per carenza d’indizi. Bisogna notare che, a cominciare dal marito della Franzoni, la famiglia di Samuele si è sempre detta certa dell’innocenza della madre. E questo è un particolare non da poco, che colpisce l’opinione pubblica e alimenta fino in fondo i dubbi su cosa sia successo davvero in quella tragica mattina. Ci sono però i numerosi sopralluoghi della scientifica e le perizie sulle tracce di sangue. Sul pigiama della Franzoni, ritrovato qualche ora dopo l’omicidio nella stessa stanza di Samuele, e sulle sue ciabatte ci sono sangue, frammenti di osso e materia cerebrale del piccolo. Inoltre, particolare importante, al di fuori della stanza del bambino non ci sono tracce ematiche che portino a pensare a una presenza estranea, entrata e uscita dalla casa per compiere l’omicidio. Possiamo dire che sostanzialmente è questo quadro della scena del delitto che porterà alla condanna della Franzoni: lo scempio sul piccolo Samuele è stato compiuto da chi era già dentro l’abitazione e si è poi cambiato gli abiti all’interno. In tutti i gradi di giudizio la difesa della Franzoni, non senza clamori mediatici che lasciavano pensare il contrario, non riuscirà mai a smontare questo quadro ricostruttivo. Non fu mai trovata, lo ribadiamo, nessuna impronta o traccia ematica o risultanze scientifiche riconducibili a persone diverse dagli abitanti della villetta. Anna Maria Franzoni quella mattina è uscita di casa assentandosi per otto minuti. Ha accompagnato il figlio maggiore alla fermata dello scuolabus, dove l’ha vista l’autista, e poi è rientrata. Secondo la difesa della donna il delitto è stato compiuto in quegli otto minuti da qualcuno entrato in casa per rubare, che impaurito dalla presenza non prevista di Samuele lo avrebbe colpito fino a ucciderlo per poi scappare. Ma c’è il problema della mancanza di tracce. La stessa Franzoni e l’autista dello scuolabus affermano di non aver visto nessuno in quel lasso di tempo e non risulta nessun segno di effrazione. In primo grado, siamo nel 2004 arriva la condanna: trenta anni di reclusione. Poi arrivò l’avvocato Taormina … L’avvocato Taormina parte alla grande. Uno stuolo di consulenti scarnifica la villetta alla ricerca di prove o indizi non rilevati dagli investigatori. E viene annunciato il ritrovamento di un’impronta digitale insanguinata sulla porta della stanza di Samuele, “quella del vero assassino”, dirà Taormina. L’impronta però appartiene a un consulente della difesa e non si tratta di sangue sui polpastrelli bensì di Luminol, un composto chimico utilizzato per rilevare le impronte. C’è in questo quadro da ricordare la massa d’intercettazioni ambientali che contribuirono a ritenere la Franzoni responsabile del delitto. Conversazioni in cui lei e i suoi familiari cercano un modo per coinvolgere i vicini di casa e si ripropongono di fargli confessare il delitto, oltre a ipotizzare di far ritrovare un martello nel terreno dei vicini per indurre gli inquirenti a ritenerlo l’arma del delitto. Colpì poi gli italiani il verbale in cui un esponente delle forze dell’ordine riferì di aver ascoltato una frase disperata rivolta dalla Franzoni al marito mentre l’elicottero portava via il corpo del bambino: “Facciamo un altro figlio, mi aiuti a farne un altro?”. Sempre nel 2004 la Franzoni e il marito presentarono denuncia contro un vicino accusandolo dell’omicidio, ma anche questa labile pista cadde presto, l’uomo aveva un alibi e denunciò in seguito per calunnia la coppia. Fu coinvolta dai due genitori di Samuele anche un’altra vicina, completamente scagionata dalle indagini successive, che era stata tra l’altro la prima a chiamare i soccorsi. Il processo d’appello nel 2007 confermò la condanna della Franzoni, riducendo tuttavia a 16 anni la pena detentiva. Altrettanto fece la Cassazione che nel 2008 confermò la sentenza d’appello. Ma Anna Maria Franzoni, a questo punto colpevole dell’omicidio del figlioletto di tre anni, era lucida, è una persona che ha avuto un momento di follia, è una folle che riesce a ingannare i suo interlocutori? Molte perizie psichiatriche hanno affermato sia la tesi della follia che il contrario. Si parlò di nevrosi isterica, di depressione post-partum, di difficoltà della donna nel gestire la nuova maternità. La stessa mattina del delitto, alle 5,30, la Franzoni aveva svegliato il marito lamentando un malessere e questi aveva poi chiamato la guardia medica. I sintomi lamentati, tremore, nausea e affanno, portarono gli inquirenti a ipotizzare un attacco di panico. Tutte le sentenze nei tre gradi di giudizio escludono però che la donna fosse in uno stato di alterazione psichica al momento dell’omicidio. L’unico strascico giudiziario che resta dell’omicidio del piccolo Samuele è la parcella da 400 mila euro che l’avvocato Taormina ancora reclama. Alla fine di questa vicenda poche considerazioni su come la cronaca nera sia, al di fuori degli elementi morbosi che vanno di moda in televisione e sui giornali, un grande termometro per misurare la temperatura dei rapporti sociali. Volevamo in gran massa che Anna Maria Franzoni fosse innocente perché non vogliamo e non possiamo accettare che nostra madre ci uccida, nostra madre deve amarci e basta. Il senso dell’enorme interesse della società italiana per il delitto di Cogne è tutto qui. Il rapporto tra madre, padre e figli costituisce il centro di tutta la psicanalisi. Come figli pretendiamo l’amore dei genitori, come genitori talvolta ci sfiora l’idea di uccidere i figli. Non lo confessiamo a nessuno naturalmente, sappiamo che saremmo giudicati male per questo. Un pensiero non è un’azione naturalmente, è un processo psichico che in situazione di equilibrio siamo perfettamente in grado di controllare. Resta in un angolo della nostra testa la convinzione. purtroppo avallata da fatti di cronaca meno conosciuti di quello di Cogne, che nella mente di una madre che quella vita ha portato alla luce si svolga un processo molto più complesso e di quasi impossibile decodifica razionale di quanto possa avvenire nella paternità. Parliamo di patologie naturalmente, ma la vita ci ha insegnato che il confine tra sanità mentale ed equilibrio è molto più labile di quanto possa stabilire un manuale o un tribunale. Per questo il delitto di Cogne rimarrà ancora a lungo negli annali di cronaca nera, come un monito che ci spinge tutti a interrogarci su chi siamo veramente e con quante maschere sociali ci offriamo alla vita. La risposta, naturalmente, non c’è o resta confinata in quell’angolo della nostra coscienza con cui siamo gli unici a dover fare i conti prima di addormentarci.