SE CADE LA STELLA POPULISTA

SE CADE LA STELLA POPULISTA

“Di Maio si è dimesso, Salvini ha perso, il 4 marzo è archiviato, il Pd torna a essere il pilastro del campo alternativo alla destra”. La sintesi della situazione è di Nicola Zingaretti, in uncommento a caldonella notte dei risultati delle regionali. E se può suonare troppo definitiva – in fondo si è votato solo in due regioni e due regioni, oltretutto sideralmente distanti fra loro, non fanno l’Italia –, nonché troppo ottimista sul Pd – primo partito in Emilia-Romagna e inaspettatamente anche in Calabria, ma non per questo al riparo dai suoi problemi e dalle sue contorsioni interne – coglie indubitabilmente il punto cruciale: il voto di domenica 26 gennaio chiude politicamente, dal basso, la stagione che si era aperta il 4 marzo 2018 con lo sfondamento della Lega e dei cinquestelle e con il governo gialloverde, e che l’estate scorsa era stata interrotta – ma dall’alto, e perciò con un deficit di legittimazione – con la formazione del governo giallorosa. Che questa archiviazione coincida con l’apertura di una stagione nuova e promettente, tuttavia, sarebbe arrischiato dirlo. Si può ipotizzare che dia un po’ di respiro al governo, ammesso che il rinsaldamento del Pd compensi la deflagrazione del M5s. Ma non è altrettanto ipotizzabile un effetto di stabilizzazione sull’insieme del sistema politico, che resta esposto a fattori assai aleatori, dall’accordo sulla nuova ed ennesima legge elettorale alle scosse interne ai partiti e alle coalizioni. Dalla legge elettorale – che dovrà tenere conto della riduzione dei parlamentari voluta dai cinquestelle, sempre che il referendum la confermi – dipende l’assetto che il sistema politico prenderà, su base proporzionale o bipolare. Dicono i retroscena che l’accordo proporzionalista raggiunto dalla maggioranza di governo dovrebbe reggere, per convinzione di Zingaretti e soprattutto perché il M5s non accetterebbe mai di vedere sancita la fine della sua specificità “né di destra né di sinistra” da una legge che lo obbligasse a coalizzarsi. E del resto, il maggioritario e un assetto bipolare non converrebbero neanche al centrodestra, dove significherebbero riconsegnare a Salvini quello scettro di padrone assoluto della coalizione che la sconfitta emiliana e il mancato sfondamento in Calabria gli hanno tolto con grande sollievo di Berlusconi e di Giorgia Meloni. Le maschere caduteTuttavia non è sfuggita a nessuno la voracità con cui alcuni politici e soprattutto alcuni commentatori si sono avventati sui dati delle regionali per decretare il ritorno del bipolarismo, con il vizio mai dismesso dai primi anni novanta in poi di ingabbiare nella “soluzione” maggioritaria tutte le crisi e gli annodamenti di un sistema politico in perenne transizione. La cui ultima tappa, come il voto di domenica ha dimostrato sia in Emilia-Romagna sia in Calabria, è l’evaporazione del M5s insieme alla liquefazione del (presunto) “carisma” imbattibile di Matteo Salvini. Fine della stagione sovran-populista? E inizio di che cosa? È la prima domanda che le regionali lasciano sul campo, sia pure a partire da due esiti opposti, la vittoria netta del centrosinistra in Emilia-Romagna con relativa batosta per lo “sfidante” Salvini e l’ancor più netta vittoria – prevedibile e prevista, data l’offerta frammentata del campo opposto – del centrodestra in Calabria, ma di un centrodestra che resuscita Forza Italia e in cui Salvini si ferma al 12 per cento. Mentre il M5s che in Emilia-Romagna era esploso in Emilia-Romagna implode; e in Calabria, dove alle politiche del 2018 (e già a quelle del 2013) aveva beneficiato del rigetto popolare di un’intera classe dirigente fallimentare, di destra e di sinistra, scende in picchiata dal 44 al 7 per cento, con la magra consolazione che alle regionali di cinque anni fa era andato ancora peggio.