FOIBE, IL GIORNO DEL RICORDO
Oggi è il Giorno del Ricordo, una ricorrenza istituita per «conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale» (legge 93/2004). In effetti, quella del confine orientale è una vicenda davvero complessa e molto, molto dolorosa. Ed è stato profondamente giusto aumentare la consapevolezza nel Paese di quanto accaduto. Peccato per i compagni di strada. Oggi tanti neo/post/para fascisti accusano i “giornaloni” di aver ignorato le – a loro opinione – rivoluzionarie parole di Mattarella: «Le foibe furono una sciagura nazionale alla quale i contemporanei non attribuirono — per superficialità o per calcolo — il dovuto rilievo. Questa penosa circostanza pesò ancor più sulle spalle dei profughi». Né hanno trovato in prima le parole di Casellati: «Per troppi anni su questo dramma c’è stata una sorta di guerra civile culturale che ha dato vita a un negazionismo antistorico, anti-italiano e anti-umano». Sono parole nette, ma tutt’altro che rivoluzionarie. Ad esempio, nel 2007 Giorgio Napolitano – il “comunista” – si spinse ben oltre, parlando di «un dramma negato per ideologia», di una tragedia «rimossa per calcoli diplomatici» e di un «non giustificabile silenzio». Napolitano definì le violenze post 8 settembre e post 1 maggio «un moto di odio e di furia sanguinaria, e un disegno annessionistico slavo, che prevalse innanzitutto nel Trattato di pace del 1947, e che assunse i sinistri contorni di una “pulizia etnica”». Ai tanti che da destra accusano “i comunisti” (ma dove sono i comunisti? Vi prego, datemi un contatto), ricordo che già nel 1989 una delegazione del PCI triestino – facendo autocritica – viaggiò verso la “foiba” di Basovizza per deporre una corona a tutti i caduti. La guidavano il segretario della Federazione Stelio Spadaro, il senatore Stojan Spetic e il segretario nazionale della FGCI, Gianni Cuperlo. Fu il suggello su una revisione storica e politica cominciata almeno nel 1981, in cui si riconosceva il dramma dell’esodo all’interno delle complesse vicende del confine orientale. I pochi – troppo pochi – lavori storiografici seri su quel tema furono portati avanti dall’Istituto per la storia della Resistenza del Friuli-Venezia Giulia, fin dagli anni Settanta. In quello stesso periodo, un importante esponente del MSI triestino, Roberto Menia, issò un tricolore sul palazzo comunale di Capodistria (Koper, per gli sloveni), rivendicandone l’italianità; organizzò anche un lancio di messaggi in bottiglia nel golfo di Trieste: “Istria, Fiume, Dalmazia: Ritorneremo”. Il MSI chiedeva la revisione del trattato di Osimo, vista la scomparsa di uno dei contraenti (la Iugoslavia). Roberto Menia è l’autore della legge sul Giorno del Ricordo. Una legge che viene presentata fin da subito come “la risposta di destra” alla Giornata della Memoria. Una bilancia comparativa assurda e storicamente insensata. Ci fu silenzio sulle vicende del confine orientale? Certo, perché conveniva a tutti: all’inizio conveniva ai comunisti, poi – dopo la rottura tra Tito e Stalin – conveniva alla maggioranza, infine conveniva a tutti perché chiudeva la dolorosa pagina della guerra. Una guerra, andrebbe ricordato, che vide l’Italia e i suoi alleati aggredire proditoriamente la Iugoslavia e spartirsene il territorio, abbandonandosi a violenze contro partigiani e civili inermi. Questo la legge sul “Ricordo” non lo menziona, altrimenti dovrebbe ammettere che quelle “pietre che parlano italiano” a Rovigno e Pirano hanno smesso di farlo non per qualche atroce scherzo del destino, ma perché quello stesso fascismo di cui Menia si dichiarava sostenitore e continuatore (diciamo fino al 1995, come minimo) aveva scatenato e perduto una guerra totale. Guerra ai civili, come testimoniano gli atroci richiami dei comandanti italiani («si ammazza troppo poco» eccetera). Di profughi e sfollati ce n’erano, purtroppo, a milioni, e gli istriani e Giuliano-dalmati finirono persi nella folla. Un affronto doppio, perché loro più di tutti avevano pagato la follia della guerra, e loro più di tutti meritavano pietà. Ma questo, nonostante lo straordinario lavoro svolto dalle società di studi storici, non è il motivo per cui è stata istituita questa legge. Che cade in una data non casuale: il 10 febbraio. È l’inizio delle violenze? No. Nemmeno la fine, né indica un eccidio particolarmente efferato. Il 10 febbraio 1947 è la data della firma del trattato di pace di Parigi, con cui l’Italia sconfitta era costretta a cedere alla Iugoslavia vincitrice la Dalmazia, il Carnaro, il Carso e l’alta valle dell’Isonzo (successivamente avrebbe anche ceduto la “zona B” del Territorio libero di Trieste, “recuperando” però il capoluogo). Legare la tragedia degli esuli e dei morti alla catastrofe dell’Italia guerrafondaia del 1940: questo sì che è un affronto. Non a caso, chi aveva scorto l’intento revanscista aveva proposto il 20 marzo, data dell’ultimo viaggio del piroscafo “Toscana” incaricato di traghettare in Italia gli sfollati da Pola. La verità è che questa legge non è stata fatta per senso di giustizia storica, né per pietà verso le vittime: è stata istituita per avere un “dramma di destra” da contrapporre all’Olocausto, nella più bieca accezione di storia politicizzata. Non a caso forme e stilemi della divulgazione sulle foibe sono ricalcate pedissequamente su quelle della Shoah, considerata a torto o a ragione archetipale. Lo diceva il proponente, lo diceva l’allora presidente della regione lazio («ora tutti devono riconoscere l’Olocausto degli italiani»), dimenticando che c’è stato l’Olocausto degli italiani ed era l’Olocausto. Questo aveva inizialmente lo scopo di puntellare le pretese revansciste su una riannessione, e poi di rappresentare una polarità retorica da contrapporre alla Shoah. Ed è stato un affronto, l’ennesimo, alle vittime della più tragica guerra della storia europea. Ps: come ogni anno, suggerisco a tutti la lettura del rapporto stilato dalla commissione storica italo-slovena sui rapporti tra i due Paesi dal 1880 al 1956. Quattordici storici impiegarono sette anni di lavoro per consegnarci un rapporto imprescindibile, per esprimere un’opinione informata.
